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Fascisthian Rhapsody

di Andrea Ardito15/02/24
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Tempo di lettura 7 minuti

Ore 6.30 del mattino. Sveglia. Suono fastidioso, ma ormai ben noto. Nota è anche la routine che lo segue. Bagno, colazione in pigiama, cambio pronto dalla sera prima: camicia colorata – oggi azzurra – cravatta sgargiante e giacca cremisi. Poi caffè, auto, radio accesa. E, infine, entro a scuola. Qui, nota stonata. Oggi nessuno saluta, oggi nessuno sorride di fronte alla discromia del mio outfit. Come in un sogno, come in un incubo distopico, sono tutti vestiti di nero. Giacche uguali, occhi uguali. Voce metallica, marziale, da un altoparlante. Sono fuori posto, sono pericoloso. Una parola, “camerata”, mi spaventa più di altre. Mi sveglio.

Sì, mi sono svegliato da questo tremendo sogno, ma per giorni ho continuato a leggere su Instagram notizie legate a quanto avvenuto a Roma in via Acca Larenzia. E ho avuto occasione di discuterne anche in classe, giusto qualche mattina fa.

Passo indietro per una premessa doverosa. Questo è il mio primo pezzo qui sul blog, e volevo partire proprio da qui. Volevo farlo, ci tenevo particolarmente, perché sono un insegnante, e per giunta un insegnante di storia. La figura dell’insegnante, in quegli anni, era una figura centrale per il regime e dunque devo dire che oggi più che mai mi sono fermato a riflettere su ciò che questo significa per me.

Non intendo spendere queste righe né per aprire un dibattito politico né tanto meno per fare una lezione di storia totalmente non richiesta, tuttavia desidero riflettere “a voce alta”, per così dire; intanto perché non parlare di qualcosa non fa che aumentarne il fascino misterioso, anzi – dato l’argomento – potrei quasi dire misterico.

Per chi non lo sapesse, il 7 di gennaio, un centinaio di persone (stando agli investigatori) hanno commemorato a Roma il ricordo delle tre vittime dell’agguato avvenuto in quella stessa via quarantasei anni fa, nel pieno degli anni di piombo.

La mia riflessione parte proprio da qui. Parte del 7 gennaio. Parte da Acca Larenzia. Ma si articola, spazia orizzontalmente su altri temi e verticalmente nel tempo.

Fra politici che si schermano dietro un “questo episodio è stato strumentalizzato” e altri che, in effetti, lo strumentalizzano mi sono fatto una domanda: ha senso, è storicamente corretto, vedere oggi questo specifico caso come sintomo di fascistizzazione dilagante della società italiana? A seconda dello schieramento di chi riporta la notizia in tv, sui social o al bar di fronte ad un bicchiere di prosecco, saremmo tentati di dire “chiaramente sì” oppure “assolutamente no”. Niente prosecco, ma io e il mio caffè optiamo per un ugualmente deciso sebbene meno estremo “non necessariamente”.

Sono convinto che non sia quasi mai il singolo caso isolato, per quanto eclatante possa essere, a dare il segnale di qualcosa; lo posso affermare storicamente (non fu soltanto la Bastiglia a dare origine alla rivoluzione francese, non fu soltanto Gavrilo Princip a far scoppiare la prima guerra mondiale) e lo ritengo valido anche nel 2024. Certo, può far paura sentire quella parola (Presente!) gridata con enfasi, vedere una massa nera di persone che la urla, e ricordare ciò che questo porta con sé. Ma non può essere “solo” (assolutamente fra virgolette) tutto qui. Mi ripeto, ma penso sia importante. Non è il singolo episodio, ma la mentalità. Credo sia decisamente più pericoloso l’abituarsi a certi gesti, a certe pratiche, a certe consuetudini, a certi stili di vita; è, penso, decisamente peggio che non sia in fondo poi nulla di che esporre in negozio il calendario con la mascella poderosa di Mussolini, che non sia in fondo poi nulla di che alzare un braccio teso in segno di saluto, che non sia in fondo poi nulla di che conservare un mezzobusto celebrativo, che non sia in fondo poi nulla di che assaltare la sede di un sindacato. E perché “non sia in fondo poi nulla di che” mi pare chiaro. Il fatto è che, compiamo uno sforzo di introspezione e verifichiamo se non è così, tendiamo spesso un po’ tutti ad alzare l’asticella del “solo”. Cosa intendo? Intendo, grossomodo, quel comportamento volto a minimizzare che ci porta al passare dal, quando siamo studenti, “ho consegnato SOLO cinque minuti dopo” al “era SOLO uno scherzo” quando si sfocia in atti di bullismo. Che, poi, è lo stesso che sentiamo dire a seguito di uno dei tanti (non ci staremo forse abituando anche a questo, di gesto?) episodio di violenza di genere? Era solo geloso. Era solo una pacca. Era solo sesso. E, per entrambe le casistiche, mi sento di dire che le punizioni da sole non bastano. Certo, parlare di “ipotesi di apologia del fascismo” per soltanto dieci persone su centinaia di un unico episodio, forse è un po’ pochino (così come troppo spesso leggere appaiono le pene per i casi di femminicidio); tuttavia è a priori che, secondo me – ecco che esce l’insegnante - più di tutto bisognerebbe agire. Ma di questo si sente parlare davvero troppo poco.

Per vedere come sia così in politica basta guardare a due date che il calendario ci porrà davanti del giro di poche settimane. Sto parlando del 27 di gennaio e del 10 di febbraio. La politicizzazione del Giorno della Memoria e del Giorno del Ricordo, i colori politici con cui ogni anno vengono dipinte queste commemorazioni è, a mio parere, sconcertante. Perché è quasi come se l’appartenenza politica del singolo, di me come cittadino votante, porti a scegliere “quale film vedere” in sala; come se un votante di destra debba celebrare il sangue versato da innocenti nelle foibe e tranquillamente non vedere quello che ha bagnato i campi di sterminio. Vale lo stesso al contrario, ovviamente.

Allora - mi si potrebbe obiettare – è vero, il 7 gennaio è stato strumentalizzato dalla politica di sinistra, che mette in luce solo certi fatti e ne dimentica altri a proprio piacimento, ricorda le stragi delle rappresaglie nazifasciste ma non quelle delle brigate rosse, suddivide le vittime in morti di serie A e altri di serie B.

Sì – rispondo – che qualcuno lo faccia è fuori di dubbio (consiglio sempre, infatti, ai miei studenti di leggere “Se questo è un uomo”, sì, ma anche “Il sangue dei vinti”, di Giampaolo Pansa), ma non è questo il punto della mia riflessione. Al centro di essa c’è il mio personale senso di angoscia che nasce proprio dal costante sminuire, dal dilagante rischio di “liberi tutti”, che viene, penso da più parti. E in particolare da due direzioni apparentemente opposte.

"Chi si dice fascista o comunista nel 2024 mi fa tenerezza, sono stati sconfitti dalla storia, fortunatamente non torneranno" ha affermato il vicepremier Matteo Salvini in radio.

“Non si può più dire niente con questo «politicamente corretto»” affermano spesso gli utenti dei social – e talvolta gli studenti in aula.

Non ho modo di rispondere al vicepremier, salvo che nel caso in cui lui giunga a leggere queste righe, ma se potessi farlo gli risponderei che auguro a lui e a noi tutti la fortuna di cui parla, auguro a lui e a tutti noi che no, l’oscurantismo e l’omologazione totalitaria del passato non tornino; ma che purtroppo, al contrario, “Ad Acca Larenzia un'ostentazione liturgica di nostalgia, non un pericolo effettivo” (titolo dell’editoriale del 12 gennaio di Giuliano Ferrara su Il Foglio online) sia proprio il sintomo di quanto dicevo prima, il sintomo che quando si sottovaluta qualcosa, essa possa in qualche modo tornare a minacciarci.

Mi è più facile invece rivolgere alcune parole a chi sostiene l’altra posizione. Gli articoli 18, 19 e 20 della Dichiarazione universale dei diritti umani difendono rispettivamente la libertà di pensiero, di espressione e di pubblica assemblea, è vero. Quindi ogni essere umano, stando a ciò, dovrebbe avere il diritto anche di commentare serenamente il fondoschiena di una sconosciuta in discoteca, di ritenersi e dirsi apertamente fascista oppure di radunarsi per dirsi presente e salutare a braccio teso i propri compagni (mh, no, non credo utilizzerebbero questo termine). Al di là del fatto che ci si potrebbe chiedere quanto questi diritti sarebbero altrettanto tutelati in forme di governo analoghe, mi limito ad una riflessione più oggettiva: la Costituzione italiana, nell’articolo 21, limita tale libertà al fine di evitare reati, offese, ingiurie. Inoltre, ora più soggettivamente ma credo di non dire nulla di assurdo, a proposito del «politicamente corretto» ritengo ancora una volta che la questione non vada sminuita semplificandola eccessivamente per non perdere di vista il suo nucleo centrale. Quindi chissà, magari ne parlerò meglio un’altra volta.

Però è vero che quelle immagini e quelle voci fanno paura. E credo facciano in qualche modo paura tanto alla sinistra quanto alla destra, perché portano alla luce riflessioni più profonde; perché costringono a rivedere un passato ancora molto vicino; perché portano a cedere a quel sottile (nel senso di subdolo) e molto pericoloso, desiderio di non parlarne, di non citare certi nomi o per timore o proprio per desiderio di non volerli nemmeno sentire pronunciati. Mi riferisco al nostro Novecento italiano, o anche ad altre situazione storiche, come nella Francia e nell’Europa postnapoleoniche. Ma “la paura di un nome non fa che incrementare la paura della cosa stessa” sostiene Hermione Granger; e non parlare di qualcosa, rendendo moralmente sbagliato farlo, censurandolo, non fa che aumentarne il fascino, aggiungo io.

Che poi, esistono ancora destra e sinistra? Oddio, con il fatto che tali termini potrebbero non essere più pienamente attuali in Italia, non avrà ragione chi sostiene che il passato non possa più ripetersi e che quindi la polemica sui fatti di Acca Larenzia non sia altro che un “al lupo al lupo” (sempre parole di G. Ferrara nel suo editoriale)? Erodoto, Polibio, e la loro teoria dell’Anaciclosi, ovvero l’evoluzione e degenerazione ciclica delle forme di governo, mi aiutano a trovare sicurezza nella mia posizione e ad allontanarmi da questo dubbio improvviso.

Ah a proposito, ministro Salvini, se è arrivato a leggere sino a qui, mi permette di aggiungere solo due parole? Pensa davvero che non possa più succedere? Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per onestà intellettuale ammetto che non sono mie, sono di Primo Levi, sopravvissuto al campo di concentramento di Aushwitz.

Ma chiedo scusa, forse anche questo fa parte del “perenne dibattito giornalistico stanco su settant’anni fa".

Scritto da

Andrea Ardito

Certamente insegnante, e con passione.
Poi molte altre cose... potenzialmente tutte, perché forse sognare è quella che mi riesce meglio.

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