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Un Brunch con… Giovanni e Luisa Impastato e Salvo Ruvolo

di Francesco Di Donna09/05/23
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Tempo di lettura 13 minuti

Benvenute e benvenuti al Brunch di oggi, 9 maggio.
In linea con le premesse del testo pubblicato ieri, ripetendo un concetto fondante di questo spazio, e cioè che la memoria è una cosa seria, non statica e sterile, ma motore vivo e pulsante, ecco qui riproposta l'intervista pubblicata nel maggio di due anni fa, dedicata al ricordo di Peppino Impastato e a chi è testimone diretto della sua storia.

Dal lontano 2011, chi scrive dedica il giorno 9 di questo mese ad una delle figure più importanti, carismatiche, intellettualmente disarmanti del movimento antimafia e più in generale della storia del Belpaese, capace di un’incredibile e costante forza d’attrazione che attraversa le generazioni: Peppino Impastato, giovane illuminato.
Ne parliamo oggi con tre persone speciali, irrimediabilmente legate a questo straordinario giovane siciliano, ed io non nascondo un certo coinvolgimento emotivo, tantomeno una punta di orgoglio, presentandovi, in ordine di intervista, Giovanni e Luisa Impastato e Salvo Ruvolo.
Li ringrazio per aver accettato l’umile invito di chi, nel suo piccolo, ha cercato di dare continuità al racconto della vita, dell’azione, del pensiero di Peppino, in dieci anni di incontri nelle scuole, militanza attiva in Libera ed ora in Educare alla Bellezza dal momento della sua fondazione. Dunque, cominciamo!

Giovanni Impastato è il fratello di Peppino, nonché uno dei fondatori di Casa Memoria, scrittore e uomo di valore che da trent'anni dedica le sue giornate al ricordo di chi ha saputo creare una breccia eterna nella muro omertoso della cultura mafiosa.

– Con uno sforzo d’immaginazione doloroso, ti chiedo: se quella notte del 9 maggio 1978 fosse andata diversamente, come sarebbero continuate la tua vita e quella di Peppino? Come sarebbero andate le elezioni comunali di pochi giorni dopo?
La storia avrebbe preso una piega completamente diversa. Peppino avrebbe continuato a dare il suo contributo e – parliamoci chiaro – l’avrebbe sconfitta quella mafia! Quando “loro” (i mafiosi) hanno capito che Peppino li avrebbe sconfitti, lo hanno ucciso. Mio fratello aveva scoperto quell’arma micidiale che è l’ironia: li ha ridicolizzati, li ha demoliti, facendo anche ridere la gente alle loro spalle, cominciando a sgretolare quell’aura di prestigio in cui prospera la cultura mafiosa, creando una breccia con il suo impegno culturale dirompente.
La storia sarebbe completamente diversa e anche la mia vita. Forse sarei un po’ meno responsabile dal punto di vista politico e culturale, ma l’avrei seguito in tutte le sue battaglie, facendole anche mie. Le elezioni sarebbero andate bene. Peppino è stato eletto simbolicamente con il doppio dei voti preventivati, e solo la metà sarebbe bastata a farlo entrare in Consiglio comunale. Peppino aveva un buon consenso popolare e avrebbe scombussolato il sistema del potere di Cinisi: i mafiosi avevano capito anche questo. Hanno temuto la sua ironia e le sue denunce, fatte soprattutto via radio. Peppino era inoltre molto preparato, di un altro livello rispetto a tutti gli altri consiglieri comunali, senza parlare del suo incredibile coraggio. Avrebbe fatto di tutto, letteralmente.
Sarebbe diventato una figura istituzionale e quindi ancora più temibile, all’insegna della difesa del territorio e della cultura della legalità. I suoi mezzi erano i comizi, le mostre fotografiche, la radio: oggi avrebbe anche internet. Sarebbe stato ancora più forte.

– Accertare la verità giudiziaria è stato frutto di un lavoro determinato e lungo 24 anni, come hai vissuto quel periodo?
Con uno stato d’animo terribile. I nostri nemici non erano solo i mafiosi, ma anche quella parte di istituzioni che hanno tentato di affossare la verità, come coloro che hanno tentato addirittura di far scomparire reperti importanti, che anzi in poco tempo avrebbero risolto il caso. Invece, in malafede, hanno deviato il percorso giudiziario, senza rilevare, ad esempio, le pietre macchiate di sangue nel casolare luogo dell’omicidio. Per fortuna, abbiamo anche trovato figure istituzionali leali e corrette, come il Procuratore Costa, il quale ha valorizzato subito l’impegno sociale di Peppino contro i clan mafiosi e i loro appalti truccati, il traffico di droga, l’abusivismo edilizio ed ha considerato i suoi attacchi nei confronti del capomafia Badalamenti come elementi centrali per l’accertamento della verità. Il sostituto procuratore Signorino ha poi formalizzato l’inchiesta per omicidio contro ignoti. Non era più attentato terroristico, come era stato ingiustamente dichiarato.
Eppure i giornali hanno continuato ad infangare la memoria di Peppino. Noi siamo andati avanti con Rocco Chinnici, che ha emesso i primi mandati di cattura, non per l’omicidio ma per falsa testimonianza. Chinnici non ha potuto completare il suo lavoro perché è stato ammazzato, e il tutto è passato nelle sapienti mani del giudice Caponnetto, che ha avuto l’intuizione di archiviare momentaneamente il caso,
perché i pochi elementi raccolti avrebbero portato all’assoluzione di tutti gli imputati.
Qui è entrata in gioco mia madre, con il racconto del viaggio di mio padre negli USA, al fine di instaurare un dialogo con gli altri capimafia per salvare Peppino, dopo la condanna a morte decisa da Badalamenti.
L’inchiesta è stata riaperta da Giovanni Falcone, che non riuscì a completarla perché venne trasferito agli affari penali a Roma.
La svolta definitiva è arrivata con il primo collaboratore del clan Badalamenti, Palazzolo.
I riscontri ci sono stati, sono diventate prove e hanno portato alla condanna all’ergastolo di Gaetano Badalamenti e del suo vice a 30 anni. Gli esecutori materiali sono stati individuati ma non condannati: soltanto uno era ancora vivo al tempo del
processo. Manca un’altra verità: quella sul depistaggio, perché l’inchiesta è andata in prescrizione. Un’altra amarezza è questa: tutti quelli che ci hanno aiutato sono morti ammazzati, tranne Caponnetto; tutti quelli che hanno tentato di affossare l’inchiesta hanno fatto grandi carriere e sono ancora vivi. 

– Ascoltando il tuo racconto, ho rivisto nella mente alcuni fotogrammi del film dedicato a Peppino. Sei soddisfatto della rappresentazione de I cento passi, pur con qualche cucitura romanzata richiesta dal mezzo cinematografico?
Sono soddisfatto e ho compreso le esigenze del cinema. Se non si affronta questo con elasticità, non ha senso autorizzare un film così. Ci sono finti intellettuali e pignoli che contestano i metri, i colori, le virgole.
Nessuno può negare che c’è stato un grandissimo rispetto per la figura di Peppino ma in due ore di pellicola non si può rendere tutto. Qualche aspetto è un po’ più superficiale, l’impegno politico è stato più forte di quello mostrato nel film, in cui invece sono prevalsi i rapporti umani, ma viene fuori un messaggio forte e aderente.
E dico lo stesso anche sulla fiction RAI dedicata a mia madre.

“I cento passi” è stato un film che ha dato forza e dignità alla figura di Peppino, oltre a tanta visibilità: ha fissato la sua figura nella storia del Paese, in quella del movimento politico comunista e in quella del movimento antimafia. Il suo pensiero fresco e snello, trasmesso con un linguaggio diretto e semplice, permette a tanti giovani di identificarsi con lui dopo quasi cinquant’anni.

– Cinisi e la Sicilia sono cambiate in questi 43 anni? Che cosa è migliorato e che cosa è rimasto uguale o è peggiorato?
Sono cambiate entrambe, a velocità diverse. La mafia è ancora presente, certo.
Però il cambiamento c’è stato, a più livelli. Prima non esisteva un’associazione antimafia, anzi, la prima è stata proprio il Centro Siciliano di documentazione, fondato da Peppino nel 1970, poi diventato Centro Impastato nel 1979. Successivamente, la nascita di Libera e del suo coordinamento ha contribuito a diffondere – su scala nazionale – un’importante coscienza critica nei confronti del fenomeno mafioso. Il Paese Italia è cambiato molto anche dal punto di vista giudiziario e amministrativo, nonché giornalistico, anche se questi risultati sono stati pagati a caro prezzo. Mi limito a citare la legge contro l’associazione mafiosa e quella antiracket approvate rispettivamente dopo gli omicidi di Carlo Alberto dalla Chiesa e Libero Grassi. Siamo il Paese del giorno dopo, che legifera sull’onda dell’emozione e non su quella della prevenzione. E ora dobbiamo fare una riforma carceraria adeguata, difendendo però l’ergastolo ostativo: rispettando i diritti umani dei mafiosi, ma senza dar possibilità loro di nuocere. Infine, non si può parlare di mafia come antistato, ma come parte deviata, corrotta, perversa di esso. Dobbiamo spiegare perché non è stata ancora sconfitta: manca la precisa volontà politica di risolvere il problema. Riprendendo le parole di Falcone, la mafia ha ucciso i migliori servitori dello Stato che lo Stato stesso non ha saputo o voluto difendere, quelli che hanno tentato di bloccare questo fenomeno criminale.

– Come nasce l’idea editoriale della tua recente pubblicazione "Oltre i cento passi"?
Dovrei inginocchiarmi davanti al cinema, lo dico sinceramente. Ma dobbiamo andare oltre, non dobbiamo diventare prigionieri dell’impatto mediatico fine a se stesso. Il film ha reso mio fratello un eroe, un piccolo Che Guevara Italiano, un mito. Non mi sta bene. Gli eroi possono apparire distanti. Scatta un meccanismo psicologico rischioso: lui è stato un’icona, un mito; “io” mi godo la sua icona e non faccio nulla. Invece no!
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Brecht. Dobbiamo rendere vive le figure che si sono spese fino alla fine per un Paese migliore. Il lavoro a Casa Memoria viene da qui: oggi è un museo che conserva, tutela, rispetta e ricorda le figure di Peppino e di nostra madre Felicia. Il percorso dei famosi cento passi è stato riempito
con le pietre d’inciampo e i mattoni della memoria in ricordo di tutte le vittime di mafia.
Per questo nasce “Oltre i cento passi”.

– “Peppino è vivo e lotta insieme a noi” è un mantra di tutti i cortei dell’antimafia: se potessi incontrarlo, che cosa diresti a tuo fratello, oggi?
Innanzitutto, meno male che si grida ancora questo nei cortei! La domanda mi tocca nel profondo, ma con molta razionalità gli direi di continuare a lottare, pensando più a se stesso, come scrivo nel romanzo “Mio fratello”.
Peppino si è speso per gli altri ma non si è occupato della sua persona. Ci sono tante persone che hanno contribuito a renderlo vivo: i suoi compagni, la sua famiglia, il Centro Impastato. Senza di loro non saremmo arrivati qui.
Ed io li ringrazio tutti.

Luisa Impastato è figlia di Giovanni e nipote di Peppino: non ha mai avuto modo di conoscere suo zio ma è stato sempre molto presente nella sua vita, grazie alle testimonianze di Nonna Felicia, al punto da condizionarne positivamente – e inconsapevolmente – il corso.
Dal 2013 è Presidente di Casa Memoria, ruolo che svolge con grande passione.

– La storia di tuo zio ha contribuito in maniera importante alla tua formazione: che valore storico e sociale attribuisci a Peppino? Quale eredità umana ti ha lasciato?
Quello che mi piace della storia di Peppino – e ciò che mi rende orgogliosa – è la capacità di attrarre i giovani che non hanno vissuto i suoi anni: riesce ancora ad essere considerato un punto di riferimento per le nuove generazioni che, come me del resto, non l’hanno conosciuto. Questo è dovuto all’attualità delle sue idee: Peppino in quegli anni parlava già di ambientalismo, di sfruttamento del territorio, di antifascismo e antirazzismo, di giustizia sociale, tutti temi che sono tremendamente attuali. Grazie alla testimonianza di mia nonna, mi sono innamorata della figura di Peppino. Sento nei suoi confronti la grande responsabilità di dare continuità alla sua storia, per difendere quanto ottenuto in questi anni e non vanificarlo. La sua storia deve diventare la nostra storia.

– Felicia Impastato è una figura centrale: donna, madre, nonna forte e determinata. In questo 2021, la giornata del ricordo di Peppino e la festa della Mamma coincidono e non è la prima volta. Che riflessioni ti apre questo sincronismo? Che cosa ti ha insegnato Nonna Felicia?
Mi ha emozionata molto. Il ruolo di mia nonna nella storia di Peppino è stato determinante: dalla notte dell’omicidio, ha speso il resto della vita nel tentativo di difendere la memoria del figlio, riscattarla e attuarla, continuando a portare avanti le sue battaglie. Ho sempre avuto grandissima stima di lei e ho ritenuto il suo esempio straordinario ma da quando sono madre ho apprezzato ulteriormente il suo valore educativo e sociale. Una donna che ha vissuto il dolore più atroce – un lutto manifestato esteriormente tramite i vestiti neri per tutta la vita – ma è riuscita a non farsi vincere, lo ha convertito in forza, desiderio di riscatto, rinascita.
Questo la rende un esempio di donna incredibile.

– La RAI ha dedicato una fiction a Felicia, sei soddisfatta del profilo che ne è emerso?
La fiction, come il film I cento passi, è nato dopo il coinvolgimento della famiglia, molte cose sono state inserite sui nostri racconti. È stato un prodotto che abbiamo apprezzato perché l’ha fatta arrivare al grande pubblico, facendo capire il suo ruolo chiave nella storia di Peppino. L’interpretazione dell’attrice – somigliantissima, ci ha emozionati – è stata molto aderente alla realtà.

– Casa Memoria è l’esempio concreto di una vittoria che arriva. Tardi, ma arriva. Che cosa rappresenta per te?
Mi piace definire Casa Memoria come l’eredità morale che ci ha lasciato mia nonna, e noi continuiamo il suo percorso. Quando racconto la storia di Peppino, mi piace definirla una storia bellissima, nonostante l’epilogo tragico: mi spiego, è una storia di riscatto e rivincita, in cui chi vince non è certamente la mafia, soprattutto per quello che è diventato Peppino e quello che ancora oggi trasmette a tutte le persone che si identificano e credono nelle sue battaglie. Casa Memoria, così come l’ex casa del boss Badalamenti che oggi ospita la biblioteca comunale, sono simbolo di vittoria e riscatto sulla cultura mafiosa; quello che prima era il centro del malaffare di Cinisi oggi è centro culturale, un grande scacco alla mafia. 

– Peppino ci ha raccontato Cinisi e i sogni dei suoi trent’anni; qual è la tua Cinisi e quali sono i tuoi sogni?
La Mia Cinisi ha fatto tanti passi avanti, anche rispetto gli anni successivi alla morte di Peppino. La mia famiglia ha vissuto un periodo di isolamento e ostilità. La presenza, l’impegno e la costanza di Casa Memoria ha permesso al paese di non essere conosciuto solo come “il paese di Tano Badalamenti” ma soprattutto “di Peppino Impastato”, innescando motori di sensibilità e coscienza. Il mio sogno, in quanto Presidente di Casa Memoria, è che questo senso di orgoglio che provo nei confronti di mio zio possa essere condiviso sempre più dai miei cittadini e dai miei conterranei. Se Peppino ha deciso di combattere la mafia, a partire dalle sue radici, lo ha fatto perché amava davvero il suo paese.

– “Peppino è vivo e lotta insieme a noi”: se potessi incontrarlo, che cosa vorresti dire a tuo zio, oggi?
Domanda difficilissima, è una cosa che mi sono chiesta spesso, sono tantissime le cose che direi a Peppino oggi.
Gli chiederei giudizi sul nostro operato: siamo stati bravi? Abbiamo fatto abbastanza o potevamo fare di più?
Ho sempre avuto una grande curiosità di conoscere Peppino. Nutro grandissima rispetto per mio zio, la sua storia, mia nonna e questi 43 anni di memoria sono un carico che mi sento sulle spalle, una responsabilità importante e bella. Spero di renderli orgogliosi.

Salvo Ruvolo è Presidente dell’Associazione “Musica e Cultura” e organizzatore del premio omonimo, in ricordo di Peppino Impastato, e collabora instancabilmente con Casa Memoria e gestisce alcune delle pagine social dedicate a “quel giovane ribelle”.

– Come e quando hai incontrato la figura di Peppino Impastato nella tua vita? Come l’ha cambiata?
Io sono cresciuto a Cinisi, ho 43 anni, e chiaramente non ho conosciuto Peppino in vita, ma provengo da una famiglia di operai e contadini socialisti e comunisti, per cui ho sempre sentito raccontare la storia di quel giovane ribelle. A dire il vero credo che la vicenda di Peppino risuonasse, con tonalità diverse, in tutte le case di Cinisi: la mia generazione ha beccato in pieno la guerra di mafia, erano frequentissime le sparatorie, gli agguati e gli omicidi. A Cinisi i mafiosi si sparavano fra loro, e i compagni e i familiari di Peppino denunciavano le nuove configurazioni del potere mafioso sul territorio. Per quel che posso ricordare, c’era una tensione fortissima
nell’aria, un senso di vergogna da “caduta dell’impero”, e il fatto che i “comunisti” di Cinisi fossero gli unici a esporsi, a parlare con i giornalisti, era surreale e mi affascinava moltissimo. Da adolescente cominciai a partecipare alle iniziative del 9 maggio: i primi anni da spettatore, poi fra i promotori. Avrò avuto quindici anni, e da allora, e parliamo di più di venticinque anni, la figura di Peppino è la mia stella polare.

– Stai portando avanti uno studio sulla produzione scritta di Peppino, tra poesia e giornalismo: che profilo emerge? Corrisponde all’immagine collettiva costruita grazie alla memoria storica, alla bibliografia nota e alla filmografia? Hai potuto fare conoscenza di aspetti più privati e nascosti?
Da anni sto conducendo alcuni approfondimenti. Tutto è scaturito da un monologo del film “I cento passi” sulla necessità di educare alla bellezza, che contiene delle frasi incredibilmente evocative, che indubbiamente colpiscono. Sono frutto di un lavoro di ascolto molto lungo che gli sceneggiatori, il regista e il produttore hanno dedicato ai
racconti di chi quella vicenda l’ha vissuta in prima persona. Va tuttavia evitato che il concetto così poeticamente espresso diventi uno slogan da ripetere meccanicamente. La bellezza è un sentimento, il suo terreno di gioco è la percezione del mondo, è una modalità del sentire, e può, anzi deve produrre reazioni. La bellezza è una tensione
emotiva rivoluzionaria. Il mio impegno è intercettare, nei mille rivoli delle attività svolte da Peppino, questa tensione a rendere bella la propria terra, e mettere in luce l’impalcatura teorica che sorreggeva le sue scelte.
Posso dire che sì, l’immagine collettiva di Peppino corrisponde abbastanza a quanto emerge dalla conoscenza della storia ascoltata dai diretti protagonisti che, insieme a lui, hanno condotto quelle battaglie.
Forse quello che emerge poco è il suo ruolo di
dirigente politico. Era un militante della sinistra radicale ed era riconosciuto come un punto di riferimento regionale in quanto a capacità di analisi e organizzazione.
Era
un’epoca di bellissime ribellioni collettive: l’unica che ha veramente conseguito delle vittorie ed è rimasta viva, fra quelle che hanno generato concreti movimenti di protesta, è il femminismo.
Infine, sì, sono a conoscenza di aspetti privati della vita di Peppino e di alcuni fatti dai quali emerge una incredibile dolcezza. Meriterebbero uno spazio e un tempo tutto loro.

– La tua azione politica si ispira anche ai suoi ideali. A che punto siamo nel percorso per raggiungerli definitivamente?
Fare politica sul territorio è molto impegnativo, non sempre le questioni alle quali tocca dedicarsi risultano gradevoli, gratificanti: oggi purtroppo l’idea di “bene comune” è più che altro menzionata da tutti, ma agita da pochi, e questo comporta che fare politica nei territori impone di stare costantemente vigili affinché l’interesse privato, o peggio il compromesso con i delinquenti, stia fuori dalle istituzioni. Ti confesso che purtroppo in questo momento stiamo soffrendo la mancanza di un ricambio generazionale. La mia era la generazione del G8 di Genova, eravamo organizzati in rete per supportarci, pensavamo “glocal”(azione locale, pensiero globale).
Oggi, malgrado i social network, è più difficile organizzarsi anche a livello dei piccoli comuni.
Per chiudere, la strada è in salita ma noi resistiamo. Li vogliamo vedere realizzati tutti, quegli ideali!

– Che cosa rappresenta per te il premio Musica e Cultura e quanto è importante difendere e promuovere la Bellezza tramite queste arti?
Peppino è straordinariamente amato, in tutta Italia. La sua è una storia unica: un ragazzo che matura, in seno ad una famiglia e in un territorio estremamente mafiosi, una coscienza rivoluzionaria: decide di restare a Cinisi e combattere contro quanti opprimevano la sua terra, per liberarla. Eccola, nella forma più luminosa, la tensione
verso la bellezza. Credo sia questo che colpisce tanti artisti. Credo inoltre che una buona parte del merito della notorietà della vicenda umana, politica e giudiziaria di Peppino sia stata veicolata tramite l’arte.
Il film, le canzoni, gli spettacoli teatrali hanno avvicinato tante persone, l’impegno incessante della famiglia, del Centro di documentazione e dei compagni storici hanno completato il lavoro di formazione di intere generazioni. Possiamo dire che la memoria di Peppino è salva anche grazie agli artisti che ci hanno sostenuto.
Ecco il perché è nato il premio: per ringraziare e
sostenere chi condivide con noi i valori e gli ideali di Peppino.

– “Peppino è vivo e lotta insieme a noi”: se potessi incontrarlo, che cosa gli vorresti dire, oggi?
Chiederei a Peppino quello che chiedo ad alcuni suoi compagni: come si può comunicare il bisogno di giustizia e di pace che proviamo dentro? Come possiamo ridare un nuovo cuore, ribollente di vita, al sogno di un mondo in pace e finalmente libero dalla schiavitù del denaro? Come possiamo continuare al meglio la sua opera salvifica?

A 45 anni dalla morte di Peppino, possiamo affermare con forza che la sua storia ha educato e plasmato più di una generazione. L’attualità dei suoi temi ne sottolinea la lungimiranza e la capacità di interpretare la realtà, con le variabili negative da contrastare. Il suo esempio è un faro nella notte della società contemporanea.
La sua formula è eternamente vincente.
E allora si levi ancora il grido in tutti i cortei “Peppino è vivo e lotta insieme a noi”, ma ricordiamoci: siamo noi che dobbiamo essere vivi e lottare insieme a lui!

Illustrazione di Riccardo Ventura

Scritto da

Francesco Di Donna

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