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Un Brunch con... Cesar Brie & Donato Nubile, a Campo Teatrale

di Francesco Di Donna23/05/23
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Tempo di lettura 11 minuti

È una domenica pomeriggio di inizio Primavera.
La capitale meneghina tiene celate le sue contraddizioni per qualche ora e dona al viaggiatore – noto ma non più abitudinario – le sue piccole oasi.
Come Campo Teatrale, centro culturale cui si accede tramite l’ingresso di quella che sembra essere una casa di corte, dove si apre un ampio cortile, su cui affacciano in modo convergente tre blocchi di balconi e finestre.
Sulla sinistra, l’entrata dell’edificio che ospita un piccolo teatro, su cui tra pochi minuti andrà in scena Nel tempo che ci resta – Elegia per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (questo spettacolo è una produzione Campo Teatrale / Teatro dell’Elfo; la compagnia è composta da Cesar Brie, Marco Colombo Bolla, Elena D’Agnolo, Rossella Guidotti e Donato Nubile).

Silenzio in sala.
Lo spettacolo comincia.
Cinque attori iniziano ad entrare in una della pagine più importanti della Storia d’Italia; anzi, cominciano a ricamare con un flusso di coscienza, di ricordi e di eventi le vicende in cui si è fatta la Storia d’Italia. E anche un po’ il futuro, d’Italia. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto riempiono il palco, con … Tommaso Buscetta. Perché proprio lui?
Chi conosce la storia della mafia e dell’antimafia di questo Paese non può restarne sorpreso.
C’è un prima e un dopo la collaborazione del boss dei due mondi, come interlocutore di Falcone (per saperne di più, rimando alla visione di questo spettacolo, del film di Marco Bellocchio, "Il Traditore", e alla pagina dedicata di Wikimafia).
Buscetta e gli altri protagonisti abitano quella linea di confine.
Anzi, la tracciano.

Comincia una ricostruzione storica fedelmente ancorata ai fatti, ai nomi, alle convergenze, agli scandali e al ricordo delle vite spezzate. Non è il freddo resoconto dell’accaduto, ma il caldo racconto di quelle cinque anime, che si ritrovano “oggi”, nel presente dello spettacolo, ormai troppo tardi, a fare i conti con ciò che hanno vissuto e ciò che è stato loro tolto.
Una saggia e capace regia ci fa entrare nelle relazioni che legano i protagonisti e, come una matriosca, gli amanti dentro l’intreccio, in una narrazione a tratti intima e privata. Sarà stata la forza di quei legami a dare la spinta quotidiana allo sforzo eroico di Giovanni e Paolo.

Sul palco, il mezzo teatrale trova sfogo in tutte le sue sfaccettature: i corpi danzanti, le musiche cantate, l’interazione commossa, i climax vocali, persino le tinte splatter, perché si parla – inutile dimenticarlo – di sangue.
L’obiettivo, insomma, è chiaro: restituire la trama che si è manifestata negli anni, nuda e cruda. Condensata in uno spazio di tempo circoscritto ma ricco.
Uno spettacolo che tocca le corde della consapevolezza e della forte chiamata alla responsabilità – almeno questa! Il pubblico applaude, si percepisce della commozione sulla chiosa dei funerali di Stato.

E nello spazio e nel tempo che mi resta, ho il piacere di parlarne con il regista e attore – nei panni di Buscetta – Cesar Brie, e il Direttore Artistico di Campo Teatrale – che interpreta Giovanni Falcone – Donato Nubile.
Li ringrazio per aver accettato l’invito.
Dunque, cominciamo.

- Chi sono Cesar Brie e Donato Nubile e come nasce la passione per il teatro?

Cesar: Sono un drammaturgo, regista e attore di teatro, realtà in cui ho mosso i primi passi a 17 anni. Ho cominciato a scrivere fin da piccolo, il teatro mi è sempre sembrata l’arte in cui riuscire ad unire il corpo, la mente, il cuore, la poesia e la musica. Un luogo dove era possibile essere una persona intera.

Donato: Sono nato e cresciuto a Matera, in cui mantengo forti radici, ma ho trascorso più di metà della mia vita a Milano. Fortunatamente – posso dire ora – il mio percorso non è stato lineare. Laureato in Bocconi, ho lavorato nell’ambito economico-finanziario e nel frattempo ho iniziato a frequentare la Scuola di Campo Teatrale, la cui offerta formativa dava la possibilità, a chi aveva passione e capacità, di andare oltre il semplice corso, mettendosi alla prova in esperienze più organizzate e complete, ed è così che ho conosciuto Cesar Brie, durante un suo laboratorio. Abbiamo cominciato a collaborare, realizzammo insieme un’opera teatrale intitolata “Il cielo degli altri”, che ebbe successo e per la quale mi licenziai, cambiando vita e dedicandomi al teatro.

- Argentina, Italia, Danimarca, Bolivia sono alcuni dei Paesi che hanno forgiato la caratura internazionale dell’attore e regista: che cosa ha preso da ciascun Paese e quale ha inciso di più nel suo percorso?

C.: L’Argentina è il mio paese di nascita, gli odori i sapori e l’infanzia sono lì. Il teatro che si fa in Argentina, in cui la passione è forte ed estesa, è uno dei migliori al mondo. Vorrei tornare a vivere lì, un giorno. L’Italia è il paese che mi ha accolto e mi ha protetto – le persone intendo, non lo Stato italiano, che mi negò all’epoca il rifugio politico quando sotto la dittatura hanno voluto rimpatriarmi. La Danimarca è un paese di persone sensibili e rispettose. La mia vera maestra è Iben Nagel Rasmussen, una grandissima attrice danese. La Bolivia è stato il paese dove ho realizzato il sogno della mia vita, il Teatro de los Andes. Ho dato molto e ho ricevuto di più. La cultura indigena, le contraddizioni fortissime e la condizione economica precarissima sono stati incentivi, sfide, scommesse che abbiamo affrontato. Sono molto grato a ciascun Paese che mi ha ospitato e in cui ho imparato molto.

- A proposito di Bolivia, nel 2010 ha ricevuto minacce di morte per la diffusione del documentario “Tahuamanu” sul massacro dei campesinos boliviani e ha lasciato lo Stato sudamericano in cui stava lavorando: com’è nato quel progetto e come si è sviluppato?

C.: Ho denunciato dei soprusi e un massacro, in seguito ad un’attività di studio e ricerca. Nel primo caso, sono diventato il nemico di coloro che giustificavano quegli atti razzisti;  nel secondo ho scoperto le responsabilità di due bande criminali, le ho denunciate e dopo ho dovuto lasciare il Paese.

- Come e quando nasce Campo Teatrale?

D.: Campo Teatrale nasce nel 1999 ed era principalmente una Scuola di Formazione per attori. È cambiata molto dal 2008, quando io, Marco Colombo Bolla (che interpreta Paolo Borsellino, ndr), Caterina Scarenghe e Lia Gallo, con altri collaboratori, abbiamo creato un nuovo capitolo di questa realtà. Nel 2011 è diventata una sala teatrale, abbiamo cominciato ad ospitare altre produzioni, abbiamo ampliato l’offerta formativa in percorsi in cui il teatro è “strumento” - per esempio, nel campo della formazione aziendale - e progetti a più evidente impatto sociale, ospitiamo eventi e una stagione di teatro contemporaneo. Il fondatore, Luca Stetur, diceva sempre che “Campo Teatrale è le persone che lo animano e lo frequentano”, ne assume così la loro fisionomia. Chissà come sarà il prossimo capitolo!

- Perché proprio il “Teatro” come mezzo di espressione? Quali corde riesce a toccare, rispetto ad altri canali?

D.: Lo vado scoprendo pian piano. Quando l’ho incontrato, ho sentito che mi dava delle possibilità di espressione uniche. Regala la possibilità di trasformare in arte le proprie ossessioni,di lavorare su se stessi e su come ci rapportiamo agli altri. Ma la risposta più vera la ritrovo nelle sere in cui accade che sul palco abbiamo lo stesso ritmo di respiro del pubblico che ci guarda. Un’emozione unica.
Queste sono le corde che riesce a toccare il teatro: chi è sul palco, racconta una storia che crea un gancio con le persone in sala. Nel momento in cui il teatro riesce a fare questo, e a non cadere nell’autocompiacimento, nella pura forma estetica, ha svolto una parte molto importante della sua funzione.

- Che cosa vuol dire fare, difendere e proporre cultura in una metropoli come Milano? Attorno quali temi generatori ruota il vostro sforzo?

D.: Milano rischia di sembrare un eventificio, ha un ritmo che non sembra paziente nei confronti della cultura ma è altrettanto vero che forse non avrei potuto sviluppare altrove un progetto culturale come C.T. in maniera indipendente e libera. L’offerta è enorme, sia culturale che alternativa (al teatro), e la sensazione è che il nostro sia un pubblico di nicchia, una minoranza. La cultura è però diventata una forma di welfare: molti si accostano alla recitazione ricercando un benessere personale. È anche un certo nutrimento per l’anima. Chi si avvicina all’arte, manifesta una forma di spiritualità laica.
Dal punto di vista della scelta degli spettacoli da proporre in stagione non c’è una selezione dei temi: gli spettacoli che scegliamo di produrre sono quelli che propongono un punto di vista sul presente. E’ questo forse il ruolo dell’artista: farsi specchio, interrogare l’oggi proponendo visioni di futuro. In qualità di Direttore Artistico, ricerco legami forti con la contemporaneità e le idee di differenti visioni del mondo.

- In un mondo che spinge verso la supremazia del virtuale, quanto è importante avere uno spazio aggregativo “di quartiere”, facilmente accessibile e vivo?

D.: Molto, la cultura fa bene alla salute: non lo dico io, lo affermano i report dell’OCSE. Prova ne è il modo in cui le persone hanno ripreso a frequentare C.T. dopo il lockdown, ma è anche vero che per un anno e mezzo quelle stesse persone hanno vissuto senza teatro. Un artista una volta mi ha detto: “Il teatro è necessario, eppure non serve a niente”. Vale anche al contrario: tutti ne possono fare a meno, eppure non è così. Non a caso esiste da quando esiste l’uomo. Ritrovarsi in uno spazio reale conserva l’abitudine al confronto, contro gli algoritmi che ci propongono gli argomenti che già conosciamo e le posizioni con cui già concordiamo. Qui gli spettacoli si offrono al pubblico in modo dialettico, magari opposto a volte. E nella nostra sala l’incontro tra pubblico e artisti a fine performance è sempre promosso in modo anche informale.

- Quando, come e perché nasce “Nel tempo che ci resta – Elegia per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”?

D.: Nasce dall’esigenza di raccontare questa storia, cercando di avvicinare il pubblico al lato più umano, privato, nascosto dei nostri protagonisti. Il lavoro è cominciato nel 2017, abbiamo voluto dedicarci tutto il tempo necessario: lo spettacolo era pronto nel 2020 ma il covid ci ha rallentato e abbiamo debuttato due anni dopo, nel trentennale delle stragi.
Da ragazzo non sono stato molto “impegnato” sul tema, ma ricordo benissimo la figura di Giovanni Falcone e mi è sempre rimasta accanto, nonostante fosse “altro” rispetto a me. Nella famosa intervista rilasciata a Marcelle Padovani, la giornalista francese chiese al Magistrato del suo rapporto con la paura. Nella ripresa, mi aveva colpito la meta comunicazione di Giovanni: abbassò lo sguardo, prese un respiro, diede la risposta – forse un po’ forzata –, poi sorrise, e in quel sorriso catturato dal primo piano della telecamera c’era tutta la consapevolezza del suo lavoro, del suo sacrificio, persino della sua timidezza. Un’immagine di rara bellezza. Giovanni e Paolo hanno deciso qual era il loro posto nel mondo e l’hanno abitato coerentemente fino all’ultimo. Il titolo dello spettacolo è anche una domanda: come abiteremo il tempo che ci resta? Una domanda eterna ma estremamente attuale. Nello svolgimento dello spettacolo, assume anche un altro significato (toccato in apertura di questo testo, ndr). Coerenza e integrità sono ideali a cui aspirare e non facilmente raggiungibili. Volevamo infine celebrare la loro amicizia, così come la nostra (Donato, Marco e Cesar, cui si sono aggiunte Elena e Rossella, ndr).
C’è tanto affetto e grande rispetto: al momento viviamo una luna di miele incredibile.

- Viene riservata una grande attenzione al rapporto umano tra i protagonisti e alle relazioni d’amore tra Giovanni e Francesca, così come tra Paolo ed Agnese: il loro sentimento come perno attorno cui ruotano responsabilità e doveri. Come sono nate le idee di resa teatrale di questi momenti così intimi?

C.: L’intimo è sociale, le vicende personali ci aiutano a vedere Falcone e Borsellino come persone, non come eroi. La vita intima serve a contrappuntare la vita pubblica.

- Che cosa avete provato in qualità di attori nell’interpretare ciascuno il proprio personaggio, conoscendo la grandezza del loro destino?

C.: Come ho scritto nelle note di regia, questo spettacolo non intende essere un monumento, ma il racconto umano della loro storia. Non è la grandezza del personaggio a creare una grande interpretazione ma il rapporto particolare che ognuno stabilisce con il proprio ruolo. Amo fare Buscetta così come amavo il personaggio di Buscetta quando lo studiavo.

D.: L’approccio, per me, è stato quello di non pensare al personaggio storico, eroe antimafia, ma interpretare il lato più umano e privato di Giovanni. Ho provato a vivere il suo essere un po' guascone, la sua passione per il canto, l’ironia, ho cercato di avvicinarlo il più possibile su un terreno che io posso comprendere, quello dei sentimenti, dell’amicizia, della passione per il proprio lavoro, per l’amore. Quando in sala ci sono state persone che lo hanno conosciuto in vita, avvertivo un peso maggiore, una responsabilità netta, ma per me è stato ed è sempre molto bello.

- Nello svolgimento dello spettacolo, c’è un’attenta e precisa contestualizzazione politica e storica, variabili necessarie per incorniciare i fatti, i colpevoli, le convergenze e le vittime, le cui storie sono toccate sempre con rispetto: quanto studio c’è dietro?

D.: Tantissimo studio, è una materia delicata e con punti ancora oscuri. I dubitativi sono d’obbligo quando le verità giudiziarie non sono ancora accertate. Abbiamo letto tutta la documentazione con grande attenzione. Il nostro rigore ci motivava a ricordare tutte le vittime di mafia, ma abbiamo dovuto sintetizzare e condensare, e quindi rinunciare ad alcune scene. È un lavoro che continua, perché ci sono nuovi aggiornamenti.

- Credete che il pubblico sia preparato sulla Storia che raccontate?

C.: Il pubblico crede di saperne ma conosce superficialmente la storia: per questo è utile incasellare i fatti nei contesti e fare poesia con la verità che intendiamo raccontare.

D.: Ci sono vari gradi di informazione e consapevolezza, e gradi ancora diversi in base all’età degli spettatori.

- I feedback che avete ricevuto sono meritatamente positivi: credete che questo spettacolo riesca a far scattare una presa di responsabilità e consapevolezza efficace nei confronti del macro-fenomeno trattato, oltre la condivisione e la difesa del ricordo?

D.: La speranza è quella. Sicuramente c’è un grande coinvolgimento emotivo e questo lo percepiamo dalla reazione del pubblico, soprattutto tra i più giovani, che si arrabbiano e si commuovono. Credo che ci siano due atteggiamenti prevalenti: commozione mista a stanchezza, in quella parte di pubblico che si dice stanca di vedere che le cose non cambiano; commozione mista a indignazione che porta ad una maggiore consapevolezza nel quotidiano, in grado di orientare le scelte di tutti i giorni.

- Che ruolo gioca il teatro nella società di oggi? È un mezzo tra i più efficaci per parlare di mafia e antimafia e incidere sulla coscienza delle persone?

C.: Un ruolo secondario. È il figlio povero delle arti. Non porta voti ai politici e i politici non destinano risorse al teatro. È un’arte meravigliosa che gli ignoranti che governano vorrebbero far pian piano scomparire.

D.: Non so se è tra i più efficaci, dipende dall’attenzione che viene impiegata e riservata. L’immersione di realtà è efficace. Questo racconto, ad esempio, intende anche squarciare il velo di ipocrisia, folklore e regionalismo che il fenomeno mafioso ha mantenuto per anni, anche in una città come Milano, che fa i conti quotidianamente con le forme di criminalità. Serve un racconto aderente alla realtà per fronteggiare l’atteggiamento mafioso.

Il tempo di questo dialogo è finito. Devo placare le mie domande.
Ringrazio i miei interlocutori, Cesar e Donato, per questa intervista e per aver ideato e messo in scena questo spettacolo, la cui visione è fortemente consigliata!
Campo Teatrale si dimostra al contempo centro catalizzatore e preziosa cornice.
Nel tempo che ci resta – Elegia per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” è un ottimo motore di memoria, la storia dei personaggi è restituita al pubblico in modo sincero, autentico, aderente. Quella luna di miele tra gli attori, suggerita da Donato, si percepisce tra le tante emozioni della sala e rinforza l'immersione nei legami umani di Giovanni, Paolo, Francesca ed Agnese. Qui, il teatro si conferma strumento potente.
"Non è un monumento", dice bene Cesar. Assume i tratti della carezza e dello schiaffo: la dolcezza dei momenti di unione si lacera improvvisamente tra le sequenze sul palco, poi si ricompone, si strappa di nuovo, in una danza che ripropone il sacrificio consapevole di queste persone che hanno interpretato il loro ruolo, che hanno deciso di abitare per il bene collettivo, fino alla fine. Uno sforzo eroico, in un Paese che non ha saputo mostrarsi alla loro altezza.

Questo Brunch viene pubblicato - non a caso - oggi, 23 maggio 2023.
In memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo; e chiaramente di Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.

Illustrazione di Riccardo Ventura

Scritto da

Francesco Di Donna

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