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Di trenini e radici

di Francesco Di Donna07/11/23
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Tempo di lettura 7 minuti

Premessa: il testo che vi accingete a leggere rappresenta, come tutte le precedenti recensioni – o simili – , il parziale punto di vista di chi scrive. Provate ad arrivare fino alla fine.

Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione.
Tutto il resto è delusione e fatica.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
Ecco la sua forza.

Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato.
È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.
Lo dice Littrè, lui non si sbaglia mai.
E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi.
È dall’altra parte della vita.

(Luis Ferdinand Celine. Viaggio al termine della notte)

Sono passati dieci anni dall’uscita de La Grande Bellezza, premio Oscar targato Paolo Sorrentino, racconto di una Roma – anzi, di un’Italia – decadente e deludente, senza meta, come "i trenini delle feste, che non portano da nessuna parte”, cornice del fallimento di una generazione, “anzi due, facciamo tre”*, e presupposto per lo stesso destino della successiva, oggi puntualmente concretizzato.
Resoconto amaro e preciso, teatrale ma reale, di una società incardinata su un’unica cosa: il culto dell'apparire.
Il culto della grande, finta, fumosa, bellezza.
Che oggi, come allora, pare avere la meglio sul resto.

Due lustri fa, l'esaltazione mediatica è stata totalizzante, ma la critica dell’epoca (principalmente positiva) ha perso di vista – o non ha mai considerato – un carattere particolare del film: la denuncia.
L’interpretazione soggettiva qui proposta considera la pellicola presa in esame come una denuncia dello stato delle cose.
Cose che non riguardano necessariamente tutto e tutti, questo è vero.
Cose che, tuttavia, riguardano un bel pezzo del modo di essere, pensare, fare e non fare di una fascia sociale considerevolmente ampia.
Cose che, se attenzionate a fondo, possono nascondere altre fratture connesse, composte, scomposte.
E dieci anni dopo questo dato emerge con forza.
L’apparato umano” è rimasto quello.
Le mode, qui esposte in mood trash, sono diventate usi e costumi.
Abituati alla mediocrità, abbiamo abbassato sempre un po’ di più l’asticella dell’accettabile.
Concentrati sul privato, svuotato, ne abbiamo dimenticato il senso.
Concentrati sul privato, abbiamo perso di vista il pubblico.
Concentrati sul privato, abbiamo smarrito empatia e solidarietà.
Nocchieri in navigazione senza timone o bussola.

Nei salotti borghesi romani si consuma la vita tra cocktail e balli di gruppo, mentre tutto scorre lentamente al di fuori, in moto perenne e inesorabile.
A prima vista, infatti, l’impatto deve resistere all'andatura flemmatica dello svolgimento.
Noia o gioia: è l’approccio a far la differenza.
È la vita che si manifesta con la sua lentezza, benedetta perché effimera, prima di essere risucchiati nel vortice della superficialità.
La regia oscilla tra la bellezza infartuante, incrociata tra i monumenti della Capitale e le musiche classiche, corse spensierate di bambini, vento che accarezza i colori degli alberi, e la bellezza deprimente, artificiale, in un’atmosfera che si percepisce asfissiante, coronata da un sonoro “aò, m’hai rotto er’ cazzo”.
Da un secondo sguardo ai successivi, l’occhio attento estende il campo largo dello studio sociologico, reso in stampo verista. A tratti tragicomico e, appunto, verista.

Il mosaico di corpi, volti e maschere che danza violentemente durante il 65° compleanno del protagonista, Gep Gambardella, intellettuale disilluso e riadattato, inquieta e diverte: un insieme di caricature, marchio di fabbrica di Sorrentino, che esasperano con taglio ironico smorfie, vizi e sfoghi di un capitale umano “sull’orlo della disperazione”, mentre balla in modo sfrenato e che fa di tutto per nascondere la propria condizione, che assume i tratti della condanna auto-inflitta – perché c’è della responsabilità, soggettiva prima e di classe dopo, nel crollo verticale che lo trascina.

Lo sfarzo mondano, qui elegante qui volgare nella forma ma sempre senza contenuti;
lo sforzo drogato, rifuggendo dai problemi nello svago disperato;
la retorica inutile, a servizio di un’autoesaltazione inconsistente;
la poesia ormai assente, sul palcoscenico schizofrenico dell’ego smisurato;
la vocazione civile sepolta in vecchi romanzi d’impegno “foraggiati dal partito” di appartenenza, poi sostituito dai Reality Show;
la chirurgia estetica nevrotica, alla ricerca di un’eternità impossibile;
la figura della carica religiosa naufragata, e sorpassata dalle tendenze culinarie;
la nobiltà a noleggio, difendendo i fasti del passato arroccato nei palazzi di famiglia;
persino i funerali e le feste di divorzio come performance da mettere in scena;
la celebrazione del nulla, con vista Colosseo. E con buona pace di Flaubert.
L’arte vive – o muore – di vibrazioni inspiegate e inspiegabili.
Il tema dell’educazione familiare erutta improvvisamente in almeno tre momenti: il disagio psichico incerottato ma non curato, con fine tragica; matrimoni falliti tra le mura di casa a tre piani con piscina, e delega dei figli a figure terze a partire dagli anni della prima infanzia; l’imposizione autoritaria, sacrificando gli innocenti passatempi preadolescenziali, rincorrendo un successo precoce e deviante.
Aiuto.
Ma che roba è?!
Niente di nuovo e terribilmente reale.

Si apre la trama centrale di Gep Servillo, uomo da sempre “destinato alla sensibilità”: ormai stanco, ma ancora vivo; deluso, ma ancora curioso; arenato, ma non del tutto smarrito. Animo profondo e nostalgico, ancorato al ricordo del primo amore di un passato lontano, scoppiato in gioventù, quando le emozioni erano ancora autentiche, e pervadevano tutto con il loro entusiasmo, il loro incantesimo, servito da bellissimi flashback di una vacanza di almeno 45 anni prima “di notte, al faro”.

A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo.
Schivo e distratto esso è stato.
Per questa ragione non abbiamo più tollerato la vita.
(nel film, estratto del best seller di Gep, L'apparato umano, ricordato da un'amica, interpretata dalla sempre bella Isabella Ferrari).

Un eterno ritorno nella mente del protagonista,
un gioco malinconico di ricordi,
una punizione dantesca.

“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. Il nostro Gep arriva a quella che Erik Erikson ha definito ultima fase dello sviluppo psicosociale a metà tra i due estremi teorizzati dallo psicologo tedesco: integrità e disperazione. Lui sta in mezzo. Indubbiamente, è un personaggio con una sua integrità ben definita, costruita, lavorata, non autentica ma comunque coerente con le scelte che ha preso; però si leggono, qua e là, buchi neri di disperazione latente, carsica. Di cose non fatte, lasciate andare, perse.
"Non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire!"  e ci è riuscito.
La domanda è: gli è bastato?

Proseguendo, è sempre più chiaro (al mio occhio) che il tema generatore del film è un'altra grande bellezza, quella dell'interiorità, che Sorrentino sceglie anche di rappresentare, ed esasperare, con la vita di una donna, suora missionaria, completamente dedicata agli altri e alla sua fede (reale, questa volta!). Una donna in netta contrapposizione alle altre, bellissime, o quasi, dei salotti e delle feste. Estremizza questo carattere nascosto, soggettivo, riflessivo in questo modo, e non può fare altrimenti. Ogni altro escamotage per inscenare diversamente la profondità, qui intesa come spiritualità vera e propria, in quel contesto così grottesco, sarebbe apparso come una forzatura. Poche parole vengono affidate a questo personaggio avvolto da un alone di sacralità, tra cui le ultime, strozzate in un fil di voce, dialogando con Gep:

“Perché non ha più scritto un libro?”
“Cercavo la grande bellezza, ma non l’ho trovata …”  
“Sa perché mangio solo radici?
“No.. no, non lo so, perché?”
“Perché le radici sono importanti.”

Quelle stesse radici che richiamano a sé, al suo destino, al suo nocciolo, il personaggio interpretato da Carlo Verdone, amico sincero e brav’uomo, che deluso da Roma, dai suoi fasti spumosi, dalle sue stesse aspettative irrisolte, decide di salvarsi, tornandosene nella sua città d’origine, nella casa dei genitori, dove potrà coltivare il rapporto con una donna, dal carattere semplice, concreto, puro, una conoscenza di lungo corso, che sembra stare lì in attesa di qualcosa, o di qualcuno. Unico vincitore, a cui viene affidata, nello svolgimento, un'altra battuta di grande effetto:
“Che avete contro la nostalgia, eh?! È l’unico svago per chi è diffidente verso il futuro, l’unico.”

Non manca la variabile criminogena, tema che Sorrentino ha toccato più volte nella sua carriera, che è presente in gran parte della pellicola. Presente, ma invisibile, nascosta.
Nascosta precisamente al piano di sopra, con il balconcino a strapiombo sulla terrazza festaiola di Gep.
Tana svelata sul finale dalla Direzione Investigativa Antimafia.
“Ma lei chi è?”
“Io sono un uomo laborioso, uno che fa andare avanti il Paese, mentre lei trascorre la vita a fare l’artista e a divertirsi con gli amici. Io faccio andare avanti questo Paese, ma molti ancora non l’hanno capito.”
Giulio Moneta, uno dei dieci latitanti più ricercati al mondo.
Probabilmente un concorso esterno**, che cede la sua vita, il suo privato, la sua anima al Diavolo, che ospita persino in casa. Pochi mesi fa, la storia ha registrato la morte (dopo un arresto atteso per trent’anni) del mafioso Matteo Messina Denaro, che in un’intercettazione, qui parafrasata, ha confidato ad un amico “il posto migliore in cui si può nascondere un albero è la foresta”. Figurarsi un concorso esterno, in questa società così poco attenta e molto deviante.

“Finisce sempre così. Con la Morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c'è l'altrove. Io non mi occupo dell'altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.”
Questo è il celebre soliloquio di Servillo che chiude il tutto così com’è cominciato, giocando di sponda, ad anello, con la citazione in apertura di Luis Ferdinand Celine, proiettata all'alba del film.

Ci sarebbe altro da dire e provare a capire, come la relazione di Gep con Ramona - la sempre bella Sabrina Ferilli -  ma queste altre trattazioni le lascio altrove, dove ogni tanto voglio andare.

"Il mondo ha ucciso la lentezza. Non sa più dove l’ha sepolta." ha scritto Christian Bobin ne La vita grande.

Allora benedette la lentezza, la profondità, le radici.. che sì, sono importanti, forse perché, nonostante i repentini cambiamenti che la vita ci impone, le gioie, i dolori, i sogni infranti, le convenzioni sociali, le devianze del mondo, le motivazioni scomparse e riapparse, tenerle presenti ci fa ritrovare la bussola, mantenere la rotta, equilibrare l’orientamento. Un riappropriarsi. Ci fa stare in pace con noi stessi, almeno questo.
E ci fa scegliere di scendere da quei maledetti trenini.. che non portano da nessuna parte.

*tutte le citazioni in corsivo sono prese dal film, tranne questa, che è chiaramente (l'avete riconosciuta?!) presa in prestito da Il Ciclone
**concorso esterno in associazione mafiosa

Scritto da

Francesco Di Donna

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