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Che brutta fine le mascherine

di Antonio Roma24/02/23
Categoria: Tag:none
Tempo di lettura 3 minuti

Buongiorno, è venerdì 24 febbraio, io sono Antonio Roma e questa è ‘Na tazzulella ‘e café, che dovrebbe somigliare ad una rassegna stampa settimanale, ma che poi, nel concreto, lo è stata solo nel 2022. Nel 2023 somiglia più ad un editoriale.

1° febbraio 2022, prima serata del Festival di Sanremo, un poeta contemporaneo, con un abito discutibile faceva il suo ingresso nella seconda metà della serata sul palco dell’Ariston. Il suo nome? Dargen. Titolo della canzone: Dove si balla, che si arrampicò fino alla quarta posizione della classifica generale di un Festival che vinsero Mahmood e lo Sterminatore di fiori (George R. R. Martin se dovessi continuare la saga potresti prendere in considerazione di farne un personaggio, un po’ fatto per Jamie Kingslayer - lo Sterminatore di Re - Lannister). Ora, perché Dargen un anno dopo? Perché come c’è il Long Covid c’è il Long Sanremo (il fenomeno che spiega perché ci rimangano in testa motivetti discutibili di canzoni discutibili per settimane e settimane)? No. Non dura così tanto. Parliamo di Dargen per la profezia che abita gli ultimi versi della sua poesia, e cioè:

CHE BRUTTA FINE LE MASCHERINE…

A tre anni dall'inizio dell’emergenza Covid la cosiddetta filiera italiana delle mascherine è già in crisi.

La Protezione civile, stimato a inizio pandemia, che sarebbero serviti almeno 90 milioni di mascherine ogni mese sollecitò la creazione ed il sostegno di una produzione nazionale, necessaria perché l’acquisto di milioni di mascherine dall’estero, soprattutto dalla Cina, non era soltanto molto difficoltosa ma si sarebbe presto rivelata un’operazione tanto costosa quanto esposta ai raggiri di intermediari improvvisati.

Così, cito alla lettera gli Amici de Il Post, “alla fine di marzo del 2020 varie aziende legate al tessile e alla moda convertirono parte della produzione alla realizzazione di mascherine. Nacquero anche molte nuove imprese che nel giro di poche settimane riuscirono a modificare macchine esistenti o ad acquistarne di nuove. Avrebbero prodotto milioni di mascherine, molto richieste nella fase più difficile della pandemia, quando il loro impiego era obbligatorio praticamente ovunque, anche per strada. Poi le limitazioni furono allentate e in seguito eliminate, comportando una forte riduzione della domanda.

In uno dei magazzini della CMM di Modena, una delle aziende che producono mascherine, se ne sono accumulati 5 milioni, tra quelle fabbricate negli ultimi mesi e finora invendute. Probabilmente rimarranno lì a lungo. Il responsabile commerciale dell'azienda ha spiegato che «non le compra più nessuno, abbiamo fermato le macchine». In generale, per chi produce le mascherine le cose stanno andando malissimo: molte aziende hanno chiuso, altre ci stanno pensando, mentre chi aveva convertito parte delle linee produttive è tornato a fare altro.

«Ci era stato detto che dovevamo costituire una nuova filiera e l’abbiamo fatto», ci ha detto Giacomo Pieragnoli, che amministra un’altra azienda che produce mascherine, insieme alla sorella e al fratello. «Abbiamo assunto nuove persone e creato una nuova industria. Ma negli ultimi due anni i costi fissi sono aumentati moltissimo e ora è impossibile competere. Le tasse e il costo del lavoro sono molto più alti rispetto alla Cina e a causa della guerra in Ucraina è cresciuto il prezzo dell’energia».

Che il problema principale della scarsa competitività delle aziende italiane abbia a che vedere con i bandi di gara delle strutture pubbliche (per capirci quelli che esprimono la richiesta di forniture di aziende sanitarie, ospedali e in generale dalla pubblica amministrazione) non è una novità, una cosa che scopriamo oggi. L’apertura dei bandi è stata rivolta a tutti (compresi coloro che importano le mascherine dall’estero) e con prezzi di partenza molto bassi: condizioni insostenibili per gli imprenditori italiani, che hanno impedito loro di competere. È molto più semplice per gli importatori proporre offerte vantaggiose perché il numero di dipendenti è ridotto al minimo indispensabile (spesso un importatore e un solo magazziniere) e acquistano a prezzi molto bassi da produttori cinesi.

Conclusione?
Chi ha la possibilità di riconvertire le linee produttive per fare altro lo sta facendo, chi non può chiude perché sebbene faccia bene, ballare, in questo specifico caso non aiuta a restare a galla.

Ce verimm, stàteve buòno!

Scritto da

Antonio Roma

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