Logo Educare alla Bellezza
Logo TRaMe

Un Brunch con... Greta Cristini

di Francesco Di Donna27/02/23
Categoria: Tag: , , ,
Tempo di lettura 13 minuti

24 Febbraio 2022 - 24 Febbraio 2023: un anno di guerra.
I timori che allora pervadevano l'aria, rendendola incredibilmente pesante, si sono verificati tutti.
Più di 100.000 morti, oltre 65.000 crimini di guerra, negoziati di pace sempre più lontani.
Le immagini della distruzione e delle atrocità ci arrivano ad ogni edizione del telegiornale (e non solo) come schiaffi che subiamo impotenti.
Nonostante il susseguirsi delle visite diplomatiche, degli incoraggiamenti internazionali e pure del sostegno armato non si vede la luce in fondo al tunnel, anzi.

Il 27 Febbraio scorso, sulla Rubrica Nautilus, è stata pubblicata un'intervista concessami da Greta Cristini, che stava preparando le valigie per Kiev, dove sarebbe arrivata poco tempo dopo (spoiler!!), e in cui abbiamo ragionato di Geopolitica, toccando in modo rapido ma sensibile gli antefatti di quello che si sarebbe trasformato in un vero e proprio attacco militare e poi lenta guerra di logoramento.

In questo momento, Greta è tornata a Kiev. Vuole continuare il suo lavoro di report raccogliendo altre testimonianze dal fronte a Est. Non possiamo aggiornare ora il nostro dialogo di un anno fa, ma proveremo a farlo prossimamente.

Intanto, un giro di clessidra dopo, condivido nuovamente la nostra chiacchierata su TRAMe, sperando di avere l'occasione di ospitare il resoconto di Greta con la parola FINE, nel futuro prossimo. As soon as possible.

- - -

Benvenute e benvenuti a questo Brunch di fine Febbraio, come sempre a bordo del nostro Nautilus.
Il banchetto qui esposto oggi offre, purtroppo, copiosa geopolitica, e non poteva essere altrimenti.
La verità è che ne avremmo apparecchiata anche di più, ma la conversazione con la mia commensale si è consumata, anche se a più riprese, nella serata del 23 febbraio, alle soglie della guerra dichiarata a Est.
L’indomani, ci saremmo svegliati in piena guerra fredda, un’altra volta.
Giambattista Vico teorizzò una costante della Storia: essa è incistita in corsi e ricorsi – che l’uomo, scolaro da ultimo banco, proprio non vuole accomodare (per dirla alla Piaget).

Permettetemi un breve salto nel passato.
Luglio 2013.
A Marsala, il caldo torrido ci fa lentamente evaporare nel campo di Villa Genna, bene sequestrato a Cosa Nostra, adibito a campeggio per i giovani di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
Chi scrive è in quei giorni animato dal fuoco della conoscenza, dalla sete di giustizia e da uno spirito estremamente dinamico e curioso. Incontro e conosco tante persone, che per un periodo più o meno lungo condividono con me idee, strada e progetti.
Tra queste, Greta Cristini, durante un lavoro sul ricordo di Anna Politkovskaja.
Come spesso accade, il ritorno all’ordinario nelle rispettive città studio fa scattare il meccanismo della routine e ci si perde di vista. Non sui social, però.

Pochi mesi fa, durante lo scrolling abituale sul mio smartphone nelle pause caffè, inciampo nelle nuove stories, appunto, social di Greta, che decide di rivoluzionare la sua vita, già sopra le righe, rientrando in Italia.
Dopo aver conseguito la doppia laurea in Giurisprudenza italiana e francese alla Sorbona di Parigi, diventa avvocato specializzato in anti-corruzione (white collar crimes), indagini globali, compliance in quel di New York; in estate, matura la decisione di tornare in “patria” come analista geopolitica: founder di Geopolitical Fair, collabora con Geopolis e ha appena terminato la prima edizione della Scuola di Geopolitica e di Governo di Limes.
Il crescendo delle tensioni recenti e la sua preparazione sono un’occasione troppo ghiotta. Gentilmente, Greta accetta il mio invito, dribblando i tanti impegni di un presente sempre più ostico.

Dunque, tornando al 23 febbraio sera, benvenuta Greta.
Cominciamo.

– Hai lavorato come avvocato anti-corruzione a New York e nella scorsa estate hai maturato una rivoluzione copernicana che ti ha portata ad aprire un Blog di Geopolitica, rientrando in patria: come e perchè si è concretizzato questo percorso? Qual è la mission di geopoliticalfair.com?

Per dirla alla giapponese, la mia passione per gli affari esteri, i conflitti fra potenze, e la mia condizione di immigrata di prima generazione nell’Impero americano, mi ha fatto prendere coscienza del mio “ikigai”.
Dopo un percorso di studi giuridici sorboniano imbevuto di proclami europeistici (leggi franco-francesi), mi sono immersa nella cultura green e tendenzialmente post-storica (insomma proto-europea) di New York lavorando nel colosso legalistico americano DLA Piper (uno dei Big Law da cui proviene anche Doug Emhoff, Second Gentleman alla Casa Bianca). Mi sono ritrovata a subire la tensione assimilatrice dell’Impero, il fascino del mito della Città sulla collina, fino al sottile senso di colpa distillato dalla cultura statunitense per non essere nata americana.
Durante la pandemia, ho poi iniziato a soffrire la nostalgia di una Madrepatria in declino che non ha saputo trattenere il suo cervello a casa, in un rapporto di amore-odio costante con la mia collettività d’appartenenza e la sua pedagogia nazionale minimalista. Geopoliticalfair.com vuole essere uno spazio di idee per contribuire a riportare l’attenzione del dibattito pubblico ai temi strategici italiani, a partire da una comprensione profonda delle “regole del Gioco” nel rapporto conflittuale fra potenze. Tutto ciò, nella maniera più semplice e comprensibile possibile, tale da rendere la geopolitica quanto più mainstream, appunto “una notizia alla volta”.

– Da appassionato e studioso di Geopolitica, ti chiedo: qual è la tua interpretazione di questa materia multidisciplinare? Qual è il suo potenziale effettivo per una corretta comprensione del quotidiano?

La geopolitica è la disciplina che analizza i conflitti di potere in uno spazio e tempo determinato. Si fonda sullo studio delle forze cogenti e vincolanti che indirizzano i movimenti di queste collettività, come la cifra antropologica, la geografia, la storia, i modelli culturali, ecc., informandone e delimitandone il margine d’azione.
La comprensione delle caratteristiche delle masse nei loro strati medio-bassi, discernendone l’attitudine di stare al mondo, permette di individuarne la traiettoria nel medio-lungo periodo, il che consente un certo grado di prevedibilità. Ciò, a discapito della narrazione per cui ci troveremmo in un mondo sempre più caotico, in preda al panico, e in cui le azioni delle nazioni sarebbero ricondotte solo alle iniziative più o meno isolate di leader illuminati o scellerati. No, io credo si possa ritrovare (e non inventare) una coerenza nei vari eventi di rilievo internazionale, interpretando le mosse degli attori alla luce di fattori più profondi, ma meno gridati, meno mediatici, e sì, più complessi da decifrare di una campagna elettorale o dell’andamento del PIL.

– Sui tuoi social ti sei dichiarata appassionata di geopolitica vaticana. In un Occidente sempre più secolarizzato, che peso specifico occupa? Perché è importante per l’Italia e quali sono gli obiettivi geopolitici di Papa Francesco?

Dal punto di vista geopolitico, la Chiesa è uno Stato incardinato in un territorio indipendente di 44 ettari, al cui trono siede un sovrano assoluto, o meglio, un Imperatore, il Papa. Il filo rosso del costantinismo (che rievocava il precetto secondo cui il Papa era il successore dell’Imperatore romano) ha infatti accompagnato la Chiesa fino alla seconda metà del ‘900 col Concilio Vaticano II di Paolo VI, per poi riesumarsi con Benedetto XVI, ed essere infine completamente rinnegato con l’attuale Papa francescano (o peroniano?). L’importanza geopolitica della Santa Sede non si deve alla sua religiosità, ma al suo potere ecumenico su oltre un miliardo di cattolici fedeli alla Chiesa di Roma. La spinta universalistica di evangelizzazione del Vaticano è senza dubbio la missione imperiale più longeva nella Storia. Comprenderne la portata ci permette di cogliere la strumentalità che l’appoggio del brand petrino può avere ai fini del soddisfacimento degli interessi nazionali italiani (tanto più che la curia, e cioè la Segreteria del Papa, permane ancora principalmente romana). Senza contare che – permettimi una banalità – l’Italia è e resterà ancora a lungo un Paese profondamente cattolico dal punto di vista culturale, per cui ogni governo italiano deve sempre scendere a patti con San Pietro perché, va detto, in Italia non si governa senza la Chiesa (vedi legge sul divorzio, aborto, DDL Zan, eutanasia, ecc.). Papa Bergoglio sta riformando alcuni postulati perseguiti dai suoi predecessori, e al contempo prosegue in continuità degli obiettivi strategici ineludibili. Tralasciando le sue preferenze politiche (progressista o conservatore?), la grande missione del “Papa delle periferie” è incanalata nel termine “Pivot to Asia”, ad indicare l’azione di corteggiamento e negoziato con la Cina (bacino demografico enorme per i futuri cattolici), affinché la Repubblica Popolare accetti una prima forma di rappresentanza diplomatica vaticana attraverso la nunziatura apostolica, nonché accordi la nomina dei vescovi cattolici da parte di Roma – così da disseppellire i fedeli alla Chiesa cinese “clandestina” dalle catacombe.
Lo stato attuale del cattolicesimo in Cina vede infatti due tipi di Chiesa: (i) quella ufficiale, i cui vescovi sono nominati dal Partito Comunista, e (ii) quella “nascosta”, e perseguitata, afferente a Roma. Il 22 settembre 2018 è stato firmato un primo accordo provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare in tal senso e, se non fosse stato per il Covid, avremmo forse già visto un Papa visitare, per la prima volta, la Città Proibita.

– In estate, sei stata protagonista di un #geopoliticaltour a stelle e strisce: che cosa c’è dietro questo progetto? Raccontaci le tappe principali.

L’idea alla base di questi viaggi geopolitici è quella di calarsi nel fattore umano del paese in questione, provare ad intuirne la coscienza popolare (omogenea o eterogenea che sia), attraverso i luoghi cardine cari all’immaginario locale, i riti e le abitudini quotidiane delle classi più umili (dalle visite scolastiche dei bambini ai monumenti per
i caduti o i fondatori della Patria, al cibo più acquistato nei supermercati più scadenti).
In USA, mi sono prima calata nella cultura yankee del Midwest: dalle fabbriche dismesse di Detroit, Michigan, cuore della Rust Belt, alla cittadina assurta a emblema dell’elettore americano medio di Dayton, Ohio. Poi Indianapolis, Indiana, e Milwaukee, Illinois, culle degli americani di origine tedesca, i deutschamerikaner, ceppo etnico dominante negli Stati Uniti. Poi Peoria, Illinois, emblema dell’americanità più introvertita, puritana e convenzionale. Ancora Des Moines, Iowa e i suoi mercati contadini vitali dalle 8.30 di domenica mattina con il profumo di “german sausages” ad accompagnare. E poi giù per il Mississipi, con un treno di 22 ore, fino al Profondo Sud della Louisiana. Prima a New Orleans, con il suo porto strategico e la sua cultura francese, poi a Lake Charles, tra creoli e cajun, fra gli elettori medi di Donald Trump. Infine Austin, Texas, capitale dello Stato più militarista e violento dell’America. Un viaggio palingenetico. Qualche mese prima inaugurai la stagione dei #geopoliticaltours in Turchia, nell’Anatolia profonda.

– Hai osservato e studiato il comportamento della Casa Bianca: come si possono interpretare le mosse americane degli ultimi mesi (ritiro dall’Afghanistan, disimpegno in Ucraina) da un punto di vista geopolitico?

In perfetta continuità nelle loro scelte di politica estera, Obama, Trump e Biden riflettono la medesima condizione storica della collettività americana, dagli esperti definita “fatica imperiale”. Vi sono due piani da distinguere qui: quello dell’opinione pubblica americana declinata nelle sue classi medio-basse, e quella degli apparati burocratici, definiti anche “deep state”, e cioè le agenzie governative come il Department of Defense (DOD), il Department of State (DOS), la National Security Agency (NSA), la Central Intelligence Agency (CIA).
Anzitutto, gli americani sono stanchi di vedersi impegnati coi loro militari in teatri conflittuali di cui stentano a
riconoscere la ratio, finanche ricordarne l’origine. Sembra, piuttosto, che gli USA siano aggrovigliati in una spirale di ideologismo tale da attentare alla salute della propria egemonia sul mondo. In altre parole, nei decenni il costante protagonismo bellico ha finito per sfiancare l’opinione pubblica americana e, di riflesso, interrogare i centri burocratici della difesa su quali siano i modi più efficienti per mantenere in equilibrio le diverse regioni del globo, salvaguardando la primazia della potenza americana col minor sforzo possibile. Un approccio che ricorda quello inglese ai tempi della pax britannica. Tale maturazione imperiale ha inevitabilmente condotto lo “Stato profondo” a sperimentare tattiche militari sempre più conservatrici e utilitaristiche, soprattutto nei dossier ritenuti di minor importanza strategica. La deriva di questa traiettoria è il rifiuto tout court di un coinvolgimento bellico, di cui l’Ucraina è esempio plastico.

– Come siamo giunti alla crisi in Ucraina? Che cosa vogliono le parti in gioco (e quali sono, realmente, le parti in gioco)?

Senza accorgercene, i semi della crisi attuale sono stati piantati già dall’aprile scorso, attraverso dei preposizionamenti dei mezzi e della strumentazione bellica russa mascherati da esercitazioni militari, nonché dal luglio scorso, con la lettera di Putin sull’unità storica dei popoli russo e ucraino. Potremmo risalire direttamente al 1991 con il gentleman’s agreement (o meno?) tra Gorbachov e Bush padre sul non allargamento della NATO ad Est. Promesse, garanzie non scritte, puntualmente negate all’occorrenza dagli Stati Uniti.
Nel concreto, lo scoppio della crisi è dovuto all’allineamento di più fattori che Vladimir Putin ha ritenuto sufficienti per avanzare rivendicazioni, anche fin troppo ambiziose, e che hanno tutte a che fare con il momento russo e quello del rivale americano. In ordine sparso, i moventi micro e macro, a mio avviso, sono: (i) l’attenzione americana sempre più proiettata nei mari dell’Indo-Pacifico; (ii) il progressivo disinteresse americano ai dossier europei minori; (iii) l’indisponibilità dell’opinione pubblica e di parte degli apparati made in USA ad accettare e approvare un impegno militare in teatri non ritenuti strategici per gli interessi americani; (iv) la crisi identitaria interna americana sui modelli culturali di riferimento e la percezione di sé; (v) l’effettivo allineamento di basi NATO ad Ovest dell’Ucraina (da Danzica a Costanza), passando per Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e la stessa Leopoli in Ucraina, a minaccia di Mosca; (vi) la necessità per Putin di riscattare la propria immagine interna di grande zar, anche in vista delle elezioni del 2024; (vii) la storica necessità per il popolo russo assetato di gloria, tanto più in un momento di grave crisi economica interna che potrebbe minarne l’unità; (viii) il “vuoto militare” da parte americana venutosi a creare nella costa settentrionale del Mar Nero e la speculare situazione propizia per la Russia dopo l’annessione della Crimea; (ix) la necessità per la Russia di assicurarsi uno sbocco sul Mar Nero per l’accesso ai mari caldi, prefigurando un corridoio che dalla Russia attraversi l’Ucraina e giunga a Sebastopoli; (x) il serio problema di approvvigionamento idrico della Crimea, a seguito del blocco del Canale del Nord da parte ucraina. La Russia avverte di aver subìto una graduale erosione del suo spazio difensivo. Dunque, aldilà delle richieste specifiche e impossibili da ottenere (i.e., formalizzazione della non adesione dell’Ucraina alla NATO, e ritiro delle batterie missilistiche in Romania e Polonia) ha essenzialmente necessità di imporre una neutralizzazione de facto dello spazio-cuscinetto formalizzato nel territorio ucraino (la cosiddetta “finlandizzazione”). La guerra non è mai il fine, è solo il mezzo per raggiungere fini tattici ben più rilevanti.
Resta che, come gli stessi ucraini che ho intervistato finora sanno meglio di me, non esiste una risposta esatta, la soluzione perfetta a una situazione così complessa.
Il dossier è da sempre estremamente delicato e vulnerabile, come i confini del Paese, il cui nome significa, appunto, “terra di limes”.

– Se fino a pochi giorni fa si parlava di de-escalation, il discorso di Putin alla nazione di lunedì scorso, con il formale riconoscimento delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk ha fatto ripiombare sull’Ucraina e l’Europa orientale lo spettro della guerra, a 30 anni dall’indipendenza dell’ex repubblica sovietica ucraina; quale orizzonte?

Già, con buona pace di Francis Fukuyama, il quale ha di recente confermato suo malgrado che no, la Storia non è mai finita. Dopo decenni in cui la Russia sbraitava attraverso un interventismo mirato ad ottenere l’attenzione degli americani, oggi con delle manovre e dei calcoli striscianti degni dei più fini e navigati tattici quale è Putin, alla Russia viene riconosciuto à nouveau uno status di potenza di primo piano negli equilibri geostrategici dell’Eurasia. Alzando la posta in gioco ed esasperando le tensioni con iniziative scenografiche (riconoscimento dell’indipendenza delle autoproclamate repubbliche del Donbass), militari (incursione di militari russi nei territori già occupati dai separatisti), e diplomatiche (la dolosa ambiguità politico-giuridica mantenuta nel testo che riconosce l’indipendenza di Luganks e Donetsk, il quale non delinea precisamente a quali confini esse afferiscano), la Russia drammatizza la crisi perché è insoddisfatta, e vuole ottenere di più al tavolo del negoziato, che al momento non sta procedendo come vorrebbe. Ciò, sebbene gli USA abbiano già affermato che l’adesione dell’Ucraina alla NATO non è alle viste, da qui ai prossimi 10, 20, 30 anni. Putin ha così ripreso il controllo della narrazione, evidentemente considerando che il disinteresse americano ad un impegno bellico in Ucraina gli avrebbe garantito un vantaggio di partenza. Ora la palla passa all’Occidente, o meglio agli Occidenti, dati gli scontri intestini sull’approccio sanzionatorio, messi in bella mostra da Putin, senza sparare alcun colpo.

– Nel complesso e intricato scacchiere geopolitico, che ruolo giocano le organizzazioni criminali globali?

Le organizzazioni criminali attecchiscono generalmente laddove vi è un deficit di statualità e un surplus di corruzione e instabilità politica. Di “civicness”, direbbe lo studioso di Harvard, Robert Putnam. L’internazionalizzazione dei gruppi deviati è fenomeno mutevole di natura a causa della porosità del confine fra economia legale e illegale. Per restare in casa, a seguito di un processo di accumulazione di capitale illecito attraverso mercati quali la speculazione edilizia, avviato già dagli anni ’80, le imprese mafiose italiane riuscirono a imporsi all’interno dello scenario criminale transnazionale col finire della guerra fredda. Con l’avvio della pax americana (meglio conosciuta come globalizzazione), l’abbassamento delle barriere doganali, l’apertura dei nuovi mercati, i fenomeni di conflitto armato e le successive migrazioni, le nuove mafie capitaliste hanno modernizzato le proprie prospettive di guadagno e potere. Riciclaggio di danaro sporco, traffico di droga, armi e tratta di esseri umani sono solo alcuni dei sistemi produttivi in cui le piovre criminali hanno tessuto la loro rete di tentacoli illeciti. Dal punto di vista geopolitico, però, le organizzazioni criminali diventano attore geopolitico quando assumono il controllo di un territorio e di una fetta di popolazione, perlopiù facendosi portavoce di rivendicazioni etnico-culturali peculiari. Si pensi al sedicente Stato Islamico tra Siria e Iraq: l’humus per la sua creazione e ascesa è stata l’insorgenza della popolazione sunnita contro quella sciita a seguito dell’abbattimento del regime baatista di Saddam Hussein nel 2003.

– La Geopolitica affonda le sue radici nella Storia e nella Geografia, materie non sempre attenzionate a dovere nella Scuola italiana, eppure danno le coordinate di tutti gli eventi a cui assistiamo. Dovrebbero essere potenziate in tutti gli Istituti di ogni ordine e grado. Non credi?

Assolutamente sì, hai centrato un punto fondamentale. Senza Storia e Geografia la geopolitica non è. Ma c’è di più: senza Storia e Geografia, anche noi in quanto collettività perdiamo d’identità. Lo studio serio di queste due materie permette di cogliere “les forces profondes” (diceva Pierre Renouvin), che, col potere della continuità, indirizzano la traiettoria dei popoli, ben oltre le decisioni estemporanee dei leader politici. E noi, in quanto italiani, attualmente abituati ad un atteggiamento eccessivamente esterofilo rispetto ai nostri partner, e inversamente proporzionale alla proattività nel far valere le nostre ragioni nei consessi internazionali, se non sappiamo chi siamo, da dove veniamo, non sappiamo cosa vogliamo e dove andiamo. Col risultato di restare drammaticamente a reggere il velo al matrimonio d’intenti altrui.

Come potete immaginare, già l’indomani mattina, sino ad oggi, le domande per la mia ospite sono triplicate, spostando il baricentro a Kiev. Greta aveva però l’obiettivo di partire per l’Ucraina (la cancellazione dei voli ha rimandato il suo progetto) e in queste ore sta conducendo le sue ricerche, motivo per cui non abbiamo potuto aggiornare il ragionamento. Sperando di poterlo fare prossimamente, senza l’urgenza delle complicazioni che tutti stiamo scongiurando, auguro buon lavoro a Greta, ai suoi collaboratori, e a chi ci racconta dal fronte questa nuova guerra fredda.

Non solo, buon lavoro anche a chi a Scuola insegna Storia e Geografia con impeccabile professionalità, determinazione e una buona dose di pazienza, forgiando le capacità mentali di chi domani si adopererà – spero davvero – per evitare altri inutili conflitti, superando finalmente i nazionalismi, gli autoritarismi, i terrorismi, i giochi di potere sulla pelle dei civili e persino Giambattista Vico, non prima di averlo ringraziato.
Perché, come diceva Gino Strada, “solo dei cervelli poco sviluppati, nel terzo millennio, possono pensare alla guerra come uno strumento accettabile per la risoluzione dei conflitti”.

Scritto da

Francesco Di Donna

Altri articoli di Francesco Di Donna

Porto sicuro Read More
Un Brunch con... Konrad e il Collettivo Casuale Read More
"Non odiare". L'undicesimo comandamento Read More
CUORE 3DITION Read More
Di trenini e radici Read More
Sicilia a perdita d'occhio Read More
Pag. Tra Novalja e Zrce Beach Read More
Un Brunch con... Cesar Brie & Donato Nubile, a Campo Teatrale Read More
Un Brunch con… Giovanni e Luisa Impastato e Salvo Ruvolo Read More
Educare alla Bellezza* : la formula di Peppino Read More

#EdaB

Copyright © 2024 - Tutti i diritti sono riservati

crossmenu linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram