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Deindividuazione: l'influenza del gruppo sulle persone

di Giancarlo Stefanino20/02/23
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Tempo di lettura 5 minuti

 

Vi è mai capitato di correre da soli in giro e, incontrando un gruppo di persone che vi osserva, aumentare la velocità della vostra corsa?Oppure di essere nel bel mezzo di un concerto e scatenarvi come probabilmente non fareste se foste da soli? 

In genere le situazioni di gruppo possono portare le persone a perdere la coscienza di sé, una perdita di individualità e di autocontrollo. Si verifica ciò che in psicologia è stata definita “deindividuazione”, uno stato in cui le persone agiscono in modo diverso da come farebbero normalmente in quanto parte di un gruppo. I primi studi a riguardo sono stati condotti a fine ‘800 dall’antropologo e psicologo francese Le Bon, il quale individua nei comportamenti psicosociali della folla delle condotte di anonimità, contagio e suggestione guidata da pulsioni irrazionali. La folla, in tal senso, è capace di atti che i singoli componenti non avrebbero compiuto mai se presi singolarmente. Il termine deindividuazione fu usato per la prima volta dallo psicologo Leon Festinger e dai suoi colleghi nel 1952. Festinger suggerisce che, quando ci si trova in gruppi non individuati, i controlli interni che tipicamente guidano il comportamento delle persone iniziano ad allentarsi. Ispirandosi a queste prime teorie, il concetto venne evidenziato e reso noto nel 1971 dall'esperimento condotto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. 

 

L’esperimento della prigione di Stanford 

L’esperimento di Zimbardo aveva l'obiettivo di indagare se determinati ruoli sociali in un contesto carcerario potessero influenzare la personalità e il comportamento delle persone, o se specifiche qualità fossero intrinseche nella natura umana. Lo psicologo si propose di studiar ciò attraverso una 'simulazione funzionale', ovvero tramite la riproduzione fedele dell’ambiente carcerario nel seminterrato dell’Università di Stanford a Palo Alto, in California. Furono costruite camere per le guardie, uno spazio comune, una zona di isolamento e celle per i reclusi con un citofono per dare eventuali comunicazioni e ascoltare segretamente le conversazioni. Nella prigione non c’erano finestre e orologi per impedire di percepire il trascorrere del tempo. Vennero inoltre inseriti nei muri alcuni spazi che permettevano di riprendere e videoregistrare ciò che accadeva tra guardie e prigionieri.  

Vennero prima selezionati 24 studenti universitari di sesso maschile appartenenti al ceto medio, retribuiti con 15 dollari al giorno, che non presentavano problemi psicologici, disabilità fisiche e che non erano mai stati detenuti. Gli studenti non si conoscevano tra loro e vennero assegnati casualmente al ruolo di carcerato o di guardia mediante il lancio di una moneta. Alle guardie non venne data nessuna specificazione in merito a come comportarsi, se non che non sarebbero state ammesse violenze fisiche. Coloro che avrebbero dovuto ricoprire il ruolo di carcerati vennero prelevati, senza preavviso, dalle proprie abitazioni. Una volta in carcere i membri dei rispettivi gruppi venivano identificati in base al loro abbigliamento. I prigionieri vennero identificati, schedati, denudati, disinfettati, rivestiti con delle uniformi e dotati di numeri di riconoscimento. Al piede, per tutta la durata dell’esperimento, indossarono una cavigliera di metallo a cui era fissata una catena. Allo stesso modo, anche le guardie vestirono delle divise tipiche e degli occhiali da sole, ed erano dotate di fischietto, manganello e manette. Inoltre, fu loro concessa ampia libertà sul metodo opportuno da adottare per mantenere l’ordine e far rispettare le regole, scritte e preparate dalle guardie stesse prima dell’inizio dell’esperimento.  

Già dal secondo giorno si evidenziò come gli individui cominciarono a calarsi perfettamente nei ruoli assegnati. Le finte guardie iniziarono a adottare comportamenti molesti nei confronti dei detenuti, i quali assunsero il comportamento ribelle tipico delle persone recluse. Col trascorrere dei giorni la situazione divenne caotica e di difficile gestione: i prigionieri sempre più dipendenti e impotenti, mentre le guardie più aggressive e sprezzanti. In pochi giorni si ebbero forti ripercussioni psicologiche sui partecipanti, poiché le finte guardie divennero sadiche e maltrattanti e i finti prigionieri mostrarono evidenti segnali di disgregazione, stress e depressione. Così Zimbardo fu costretto a interrompere l’esperimento durante il sesto giorno (dei quindici previsti): i ragazzi non erano più in grado di distinguere tra realtà ed esperimento.  

 

L’analisi psicologica dell’esperimento 

In quel contesto carcerario nessuno più possedeva un’identità personale, le individualità erano sparite. Ciò che dimostra Zimbardo è che “qualsiasi atto che un qualsiasi essere umano abbia compiuto, per quanto orribile, potrebbe compierlo ognuno di noi, se sottoposto alle giuste o sbagliate pressioni situazionali”. Così, in situazioni particolari, si può passare da buoni a cattivi, fenomeno definito come “effetto Lucifero”. Le persone vengono influenzate in modo decisivo dal contesto in cui inserite e dal ruolo assunto. I ragazzi dell’esperimento, nonostante fossero tutti normali studenti, inseriti in una situazione altamente stressante, avevano come unica soluzione per rimanere ancorati alla realtà quella di interpretare il ruolo assegnato. Secondo Zimbardo il processo di deindividuazione spiega il comportamento dei partecipanti, in particolare delle guardie. Infatti, se le persone si immergono nelle norme di un determinato gruppo, perdono il proprio senso di identità e responsabilità personale. Il fatto che sia prigionieri che guardie abbiano deciso di adeguarsi in maniera repentina a uno stile comportamentale inusuale, finendo per considerarlo unico e immutabile, testimonia quanto valore assuma l’opinione e il pensiero comuni. 

 

Il modello di deindividuazione 

Successivamente ai risultati dell’esperimento, Zimbardo propose un modello che spiegasse la riduzione di coscienza dei singoli in determinate situazioni come possibile causa di una sospensione dei valori morali personali e un incremento di aggressività, crudeltà, e ingiustizia. Egli individua alcune condizioni per cui la deindividuazione determina la perdita di controllo. 

  • L’anonimato. Essere anonimi o non identificabili all’interno di un gruppo fa sentire al sicuro, poiché il proprio comportamento non può essere giudicato. 
  • La responsabilità condivisa o diffusa. Più le persone sentono che anche altre persone sono responsabili in una situazione, minore sarà il sentimento di responsabilità individuale. 
  • L’alterazione della prospettiva temporale. La concentrazione è posta totalmente sul presente a discapito di passato e futuro. 
  • L’arousal. Si attiva una condizione temporanea del sistema nervoso caratterizzata da un generale stato di eccitazione, con una maggiore attenzione e pronta reazione agli stimoli esterni. 
  • Il sovraccarico di stimoli sensoriali, visivi oppure uditivi. 
  • L’azione, con coinvolgimento fisico, in situazioni nuove e non prevedibili, oppure non strutturate. 
  • L’alterazione dello stato di coscienza dovuto all’assunzione di alcol o droghe. 

Non tutti questi fattori devono verificarsi affinché qualcuno possa sperimentare la deindividuazione, ma ognuno di essi rende più probabile l'esperienza. Tuttavia, Zimbardo non esclude la possibilità per cui la mancanza di restrizioni potrebbe portare le persone ad esprimere anche sentimenti positivi. 

 

Ridurre la perdita di coscienza 

La deinviduazione in sé non è sempre negativa ma può, in determinate situazioni, essere pericolosa. A seguito del modello proposto da Zimbardo sono diversi gli psicologi che insistono sull’individuazione di strategie per contrastare la deindividuazione negativa, affinché non vengano messi in atto comportamenti antisociali. Le strategie apertamente condivise e diffuse sono principalmente due. 

  • Fare in modo che le persone in un gruppo siano identificabili.  
  • Rendere più consapevoli le persone di sé. 

La ricerca suggerisce che la deindividuazione non è una conseguenza inevitabile dell'essere intorno agli altri. Il comportamento umano è sempre soggetto a forze situazionali ma le persone non sono schiave di esse. È necessario riflettere continuamente sulla situazione, sulle azioni, sul coinvolgimento emotivo e sociale, affermare la nostra individualità e la nostra singolarità, così da non permettere agli altri di deindividuarci.

Scritto da

Giancarlo Stefanino

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