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Cambiamento climatico: ragionando insieme su cosa probabilmente continuiamo a sbagliare

Che colori e forme assume il cambiamento climatico?

Qual è stato il modo in cui, in vita tua, hai  incontrato per la prima volta questo tema?

Mentre ci pensi, per il contributo di oggi, lunedì 27 marzo, ti racconto perché, secondo me, per uscire dalla condizione in cui versa il nostro pianeta, a causa della nostra breve e impattante esistenza, non basta avere una sensibilità ecologica, anche se collettivamente condivisa.

Non è solo un’emergenza

Inizio evidenziando qualche aspetto problematico che solidifica la narrazione secondo cui il tema ambientale sia legato alla visione dell’imminente catastrofe connotata da un'ineluttabile urgenza che impedisce una corretta diffusione di prese di consapevolezza e di posizione lucide. La visione emergenziale è una costruzione culturale condivisa e ben strutturata che ha smesso di essere strumentale alla sua stessa causa: ogni qual volta viene fuori, immancabilmente il dibattito si polarizza, facendo emergere frotte di negazionisti.

Spesso neppure i dati bastano, perché se non vengono ben interpretati e contestualizzati, finiscono per fornire superficiali argomentazioni i sostenitori delle teorie complottiste.

In prima istanza, faticavo a concepire, alla stregua dei terrapiattisti, come si potessero agire in maniera così sistematica un tale numero di inferenze causali così devianti: poi ho capito che non è difficile se si ignora (più o meno volontariamente) l’impatto delle cause e si ridimensionano gli effetti di queste innalzando la soglia di tolleranza regolandola anche in base alla loro distanza.

In effetti, se continuiamo a ripeterci che tutto sta per finire, se, per quanto riguarda l’umanità, si può sperare in una sopravvivenza di poche decine di anni, che senso ha mobilitarsi per fare qualcosa? Che senso può mai assumere sacrificarsi per ridurre il proprio impatto? Che senso ha ragionare di futuro?

Imparando dal futuro

Ed è proprio seguendo la concettualizzazione del futuro che tematizzo l’altro grosso problema: se è qualcosa che accadrà (anche se è certo) nel futuro, perché è indispensabile che ce ne occupiamo proprio noi e proprio adesso? Che senso ha costruire una lotta ricca di rivendicazioni che vengono sistematicamente ignorate anche dai governi che dovrebbero rappresentarci? Gli stessi governi che pur riconoscendo il problema tendono a reprimerlo, anche piuttosto violentemente, scoraggiando interpellanze e manifestazioni, rifiutando di concepire un qualsiasi tipo di efficace inversione di rotta.

Il punto è che ci siamo sbagliati, non si tratta davvero di futuro: si tratta di ora. 

Il surriscaldamento globale, le piogge monsoniche, lo scioglimento dei ghiacciai, la siccità incontrollata, l’inquinamento indiscriminato di aria, acqua e suolo che causano l'imprevedibilità dei - non più straordinari - fenomeni atmosferici estremi (per intenderci quelli capaci di stravolgere tutti gli ecosistemi e mettere a rischio la vita umana), stanno modificando ogni regione del mondo. Anche se potrebbe sembrare anti-intuitivo, dovremmo familiarizzazione con il concetto di rischio, così come lo intende il saggista Nassim Nicholas Taleb, nell'ottica probabilistica nei sistemi complessi come il nostro. Il solo concepimento del rischio, però, non deve farci dimenticare che questo non è uguale per tutte e tutti: le disuguaglianze seguono le direttrici dell'intersezionalità e su alcune soggettività più fragili, tendono a sommarsi. Infatti, sappiamo per certo, che le disuguaglianze sociali, portano a vivere in maniera diversa sia la crisi climatica, sia la stessa transizione ecologica.

Un ulteriore errore possibile è insito nell’aver anche sbagliato il soggetto: non sarà il nostro pianeta a rimetterci il prezzo più alto, è la razza umana che si trova a un passo dall’estinzione. E’ rilevante quanto questo, in realtà, ce lo dicano diverse fonti affidabili e da diversi anni anche gli scienziati studiano e divulgano modelli dalle prospettive poco rassicuranti che dovrebbero farci decostruire tutti quei comportamenti quotidiani, legati al consumo, all’abuso e all’inquinamento indiscriminato di tutto ciò che ci circonda.

Interessante, inoltre, è l’uso improprio che facciamo del termine ambiente, dimenticandoci di farne parte e che con questo termine dovremmo considerare l’intero ecosistema: ormai per noi “ambiente” non ha quasi più connotazione di natura; piuttosto viene ricondotto a una dimensione in cui l’azione artificiale dell’uomo può disporre di un luogo modificando e arredando a suo piacimento. L’ambiente di lavoro, per esempio, anche se solo etimologicamente, richiama il termine natura con cui però, ha ben poco a che fare.

Un'ulteriore complicazione dell’epoca globalizzata contemporanea deriva dall’impossibilità di comprendere cosa, soprattutto oggi, sia realmente e interamente sostenibile: infatti le informazioni parziali complicano il controllo e la riduzione del proprio impatto. A complicare ulteriormente la situazione si è ormai diffuso il fenomeno del greenwashing, una pratica che consiste nel mostrare una facciata di sostenibilità attraverso una o più iniziative apparentemente volte a una riduzione consapevole del proprio impatto carbonico, nascondendo dietro quel virtuosismo lo sfruttamento delle risorse umani e naturali e il conseguente inquinamento reale in nome del profitto. Un esempio di questo meccanismo si ha anche con gli slogan che spesso sfruttano la loro non univocità nella comprensione come per esempio: “net zero” significa ridurre le emissioni nette che è ben diverso dal più efficace “real zero” che implica il non avere emissioni da dover bilanciare.

Qualche cenno storico

Agli albori delle prime e serie lotte ambientali degli anni ‘80 e ‘90 si distinguono due macro posizioni (che cito solo per completezza), una legata al tecno-ottimismo che poneva estrema fiducia nelle tecnologie verdi e nel progresso scientifico iperbolico per la risoluzione della crisi climatica (ora sono i ferventi sostenitori della Green Economy). Questa posizione è quasi del tutto abbandonata oggi, perché sappiamo che in realtà questi sono co-fattori che sommandosi insieme determinano il tanto temuto sviluppo, legato alla crescita e a un aumento dell’offerta che, a determinate condizioni, sappiamo essere in grado di far crescere anche la domanda.

La seconda posizione era rappresentata dagli eco-pessimisti, afferente per certi versi alla collassologia, intenzionati a limitare la crescita della popolazione e il reddito pro-capite, entrambe richieste molto complesse che rendono questa posizione di per sé impraticabile, per non dire impossibile. Inoltre è bene sottolineare che, allo stato attuale, come sostiene il geografo Danny Dorling, la decrescita è già in corso da diverso tempo e in diversi ambiti, ma, per nostra sfortuna, sta agendo fin troppo lentamente.

Il conflitto è interno al sistema capitalistico

In un sistema capitalistico (poteva mai mancare questo riferimento?) come il nostro, energivoro, interconnesso e allo stesso tempo frammentato, è complicato comprendere come spezzare le catena del valore, individuate come snodo centrale della questione già da Marx, secondo cui una maggiore sensibilizzazione ha visto sorgere nuove forme di protesta  contro il cambiamento climatico, ora sempre più spesso senza movimenti organizzati. 

Diviene necessario mettere in discussione il potere e costruire un dialogo informato, consapevole e partecipativo di tutti i soggetti coinvolti e responsabilizzati per l’intero progetto.

E’ necessario, oggi più che mai ricomporre il conflitto (che andrebbe mediato) tra la dimensione politica e la costruzione di buone pratiche a modello di una transizione giusta, anche a livello dei microcosmi, assecondando una nuova ontologia ambientalista più diffusa, e slegata dalla visione post-materialista dei primi movimenti.

p.s. Vi ringrazio per l'attenzione e per il focus sulle possibili soluzioni alternative e l'approfondimento sulla transizione climatica, rimando a uno dei miei prossimi contributi.

Sperando di esservi stata di compagnia, vi lascio un abbraccio, che tanto è sempre ben accetto.

Scritto da

Michela Belcore

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