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Chi si prende cura del lavoro di cura?

di Michela Belcore29/03/24
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Tempo di lettura 5 minuti

Con la bustine del te di oggi, 29 marzo, mi piacerebbe discutere della riorganizzazione dell'intero mondo del lavoro, soprattutto quello di cura

Il lavoro di cura è sempre esistito, assume un ruolo importante con l'istituzione del Welfare State, al quale sono associate critiche legate al mantenimento dello status quo e non di una reale emancipazione, volta all'uguaglianza sostanziale.

Tre sono i processi che spiegano l’adozione di politiche di Welfare, attorno al 1940 in Gran Bretagna, da parte dei governi occidentali: lo sviluppo socioeconomico che ha generato urbanizzazione e industrializzazione; la mobilitazione politica della classe operaia, a cui serviva dare una piccola gratifica; lo sviluppo costituzionale democratico, finalizzato alla massima estensione possibile della cittadinanza, a tutela dei gruppi sociali sotto privilegiati.

Congiuntamente alla modernizzazione industriale, con la crescita e la diversificazione delle origini sociali dei “nuovi poveri”, questo sistema però è andato in crisi. L’indebolimento dell’industria tradizionale e l’espansione dell’alta tecnologia hanno trasformato l’economia ed il mercato del lavoro: fattori che disgregano e ridisegnano le classi medie, dilatano la povertà che colpisce soprattutto i disoccupati, i pensionati, le donne e i giovani.

Ed è per questo che tassare i ceti medi, i cui redditi risultano indeboliti, mette in crisi l’efficacia della protezione sociale e l’estensione del Welfare. L’incapacità delle economie industrializzate occidentali di reggere la concorrenza dei sistemi produttivi asiatici, basate su bassi costi, sfruttamento della manodopera e mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, indebolisce la tutela delle classi produttive e depotenzia ulteriormente le capacità fiscali dei singoli Stati. La crisi finanziaria del 2007 ha scoperto il nervo debole del nostro sistema: incapace di sopravvivere in un contesto internazionale che agisce fuori dal controllo dei singoli Stati e più in generale da ogni controllo.

Lo Stato Sociale avrebbe urgentemente bisogno di fondi e riforme (raccolti con i contributi che il lavoratore e le aziende versano), al fine di razionalizzare i costi senza modificare la qualità delle prestazioni che influiscono sulla politica, sulla cultura democratica e sulle forme di convivenza sociale.

“Un nuovo lessico è necessario per interpretare questa crisi e rendere visibili tendenze sin qui inedite che, prive di adeguato vocabolario, correrebbero il rischio di restare avvolte nell’oscurità: dalle trasformazioni dell’identità, alla privatizzazione di problematiche collettive (e delle relative responsabilità); dalla crisi della progettualità, all’obbligo di vivere in modo permanente con incertezza e ambivalenza.”

E se un limite importante fosse la mancanza di una prospettiva femminile? Anche la cultura del lavoro non retribuito necessita di un totale ripensamento uscendo dalla dimensione privata: “invisibile, ripetitivo, estenuante, improduttivo e non creativo. Ad esser precisi, “le donne hanno sempre lavorato. Senza stipendio, sottopagate, disprezzate e invisibili, eppure hanno sempre lavorato. Il problema è che oggi i luoghi di lavoro non lavorano per le donne. Gli orari e gli standard normativi sono stati progettati per gli uomini e non corrispondono alle esigenze attuali. Il mondo del lavoro, le sue regole, i suoi strumenti, la sua cultura vanno completamente ripensati e il motore di questo cambiamento devono essere le donne. Dobbiamo renderci conto che il lavoro delle donne non è qualcosa in più, un bonus di cui potremmo anche fare a meno: è ora di dargli il giusto valore.”  Infatti, le donne giocano un ruolo essenziale nel proteggere altri membri del nucleo familiare dalle malattie, dal disagio, dalla povertà e ciò in termini di un particolare utilizzo sia delle risorse di cura che di quelle monetarie. 

In Italia il 74% del totale delle attività di cura e assistenza non retribuito sulle spalle delle donne e la quantità di tempo dedicato, ogni giorno, va dalle tre alle sei ore, contro una media maschile che varia dai trenta minuti alle due ore. Secondo l’ISTAT nel 2020, su 101.000 posti di lavoro persi, 99.000 appartenevano alle donne. Infatti, l’espressione donna-lavoratrice che è una vera e propria tautologia, in quanto non esiste una donna non lavoratrice: esiste tutt'al più una donna che non viene pagata per il suo lavoro.

Il peso dell’invisibilità passa per un processo di invisibilizzazione, infatti, “il lavoro non retribuito delle donne è sottovalutato perché invisibile, o è invisibile perché non gli diamo il giusto valore?”

Allo stesso tempo  la “richiesta di retribuzione distrugge l'illusione che il lavora domestico sia il compito naturale della donna - un'espressione della loro femminilità innata - e, così facendo, costringe il capitale a ristrutturare rapporti sociali in termini più favorevoli per noi e, di conseguenza, più favorevoli per l'unità della classe operaia.” Tuttavia, Davis sottolinea che “una retribuzione per il lavoro casalingo potrebbe migliorare leggermente il destino delle donne e la classe operaia, ma solo a costo di radicalizzare ancora di più il loro ruolo di lavoratrici domestiche.”

Per quanto riguarda l’impiego delle risorse monetarie, sebbene siano gli uomini, in termini assoluti, a contribuire economicamente all’aumento dei redditi familiari (guadagnano di più!), in termini relativi sono le donne ad adattare e vincolare maggiormente le proprie strategie temporali e di spesa alle necessità familiari. Lo “storico” studio di Jan Pahl mostra che un aumento del reddito della donna influisce di più sull’ammontare di denaro destinato all’alimentazione e alla salute dei figli.

É chiaro che tali scelte, legate al divario di stipendio, non possono che provocare conseguenze negative, sia nel breve che nel lungo periodo, sullo stato di benessere - fisico e psichico - delle donne.

I carichi legati al lavoro extrafamiliare non sempre incrementano il valore stressante del lavoro familiare, esso può talvolta fungere, addirittura, da fattore protettivo.

In questo contesto “lo scienziato è una persona per la quale la disobbedienza di pensiero è un obbligo professionale” che ci porta a riflettere anche sui rischi ambientali generati dai moderni conflitti sociali e politici. Ed è in questa ottica che è necessaria la disobbedienza civile per l’inserimento del femminismo nel dibattito contemporaneo. 

Esso cerca di limitare una delle caratteristiche della modernità “riflessiva”: attraverso quella che Beck definirebbe come “la ricerca di soluzioni biografiche a problemi di natura sociale e sistemica” quali il narcisismo, il neoliberismo e il neocapitalismo.

Tuttavia, il nucleo del femminismo, ha contribuito a trasformare le dinamiche di genere e a promuovere l'uguaglianza tra uomini e donne, che governi populisti e sovranisti mettono a rischio.
“Ci piacerebbe credere che il lavoro gratuito sia una questione privata: una scelta personale fatta dalle donne per il vantaggio dei familiari che beneficiano della loro assistenza. Ma purtroppo non è così: l’intera società trae beneficio dal lavoro non retribuito. Il lavoro non pagato non è una scelta: [ma una precondizione che] fa parte del sistema che abbiamo creato, ma potrebbe facilmente esserne estromesso. Il primo passo è raccogliere i dati per progettare un'economia fondata sulla realtà e non sull'immaginario maschile: è legittimo e auspicabile che questo mondo sia anche a misura nostra.

Grazie, ancora una volta, per avermi letta fino a qui, un abbraccio e a presto.

Scritto da

Michela Belcore

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