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Dal Cuore del Miracolo

di Giulia Pagani12/12/22
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Tempo di lettura 3 minuti

Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.

Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.

Così Giovanni Giudici, poeta ligure nato vicino a La Spezia nel 1924, si raffigura all’interno della moderna società italiana degli anni sessanta. Dice di parlare “Dal cuore del miracolo”, che altro non è che la Milano del boom economico, città in cui il poeta si ritrova nel 1958 come lavoratore negli uffici della Olivetti. Si tratta di una poesia cruciale per comprendere quale sia la posizione che questo autore sente di assumere all’interno di una società che si sta muovendo a ritmi pazzeschi, sulla scia del benessere che questi anni hanno portato con sè. Una società che gli imputa la colpa di non ridere, di non commuoversi al momento opportuno, di non integrarsi in quelli che sono i nuovi canoni di vita borghese.

L’autore si trova suo malgrado in una realtà che non sente sua, piegata dalle logiche del benessere e del capitalismo. Possiamo notare questa sua posizione nella lirica Tempo libero. Il titolo è ironico perchè nel modus vivendi contemporaneo, esemplificato dalle azioni descritte, il tempo libero non esiste. 

Dopo cenato amare, poi dormire,
questa è la via più facile: va da sé
lo stomaco anche se il vino era un po’ grosso.
Ti rigiri, al massimo straparli.

Ma chi ti sente? — lei dorme più di te,
viaggia verso domani a un vecchio inganno:
la sveglia sulle sette, un rutto, un goccettino
— e tutto ricomincia — amaro di caffè.

Siamo di fronte ad una ripetizione routinaria, in cui anche un personaggio femminile sembra inserito: il protagonista straparla nel sonno, ma non viene udito da nessuno. Si può notare come Giudici negli ultimi due versi metta in scena un cortocircuito semantico separando l’aggettivo amaro dal suo sostantivo, goccettino.

Interessante, all’interno della riflessione di Giudici, è analizzare la funzione che egli definisce propria della poesia, che ben possiamo vedere nella lirica che dà il nome alla raccolta, La vita in versi: 

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli istanti s’affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

L’inizio del testo è un forte “metti in versi la vita”, un appello a fare ordine nel caos, attraverso la scrittura: la poesia compie il miracolo di dare un senso a ciò in cui ci troviamo immersi.  A parlare è una sorta di Everyman, in grado di rappresentare il contesto sociale tipico in cui si trova inserito. Questa lirica costituisce un forte richiamo testuale alla poesia che va a chiudere la raccolta,  Finis Fabulae. 

Come una scia si richiude la favola
sugli sbruffi dell'elica lussureggiante di schiuma.
Guardala a poppavia che s'appiattisce
levigata da diavoli mulinelli.

L'essere è più del dire - siamo d'accordo.
Ma non dire è talvolta anche non essere.
Ah discreta più del dovere fu l'incoscienza.
Presto tutte le acque saranno uguali e lisce.

L’autore si trova su una sorta di imbarcazione e vedendo la scia d’acqua che essa lascia dietro sè, gli viene naturale paragonarla all’effetto che possono avere le parole e la poesia. Il poeta esplicita come “dar forma all’altrove” possa essere comunque un modo di agire. 

Rodolfo Zucco, curatore dell’importante volume La vita in versi, della collana I meridiani e di altri testi, grande conoscitore dell’opera del poeta, dice che “Se non ci fosse stata la malattia, di certo avrebbe avuto la penna in mano fino al suo ultimo giorno”. Per tutta la vita Giudici fece poesia, cercava attraverso di essa qualcosa che fosse in grado di raccontare la vita, con un linguaggio che fosse pienamente radicato nei rapporti umani.

 

 

Immagine: Pixabay

Scritto da

Giulia Pagani

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