Penelope, moglie di Ulisse, è uno dei personaggi più caratteristici dell’Odissea. Figlia di Icario e di Policaste , madre di Telemaco, è celebre in quanto incarna il prototipo della moglie fedele, innamorata, che nonostante vent’anni di attesa non si stanca di aspettare il marito disperso, senza perdere la speranza di riabbracciarlo. È anche una donna molta furba, perchè, nonostante la pressione dei Proci, che spingevano affinché lei andasse in sposa ad uno di loro, riesce a trovare uno stratagemma per ingannarli e mantenere la propria fedeltà.Il personaggio di Penelope è così perfetto da risultare monocorde, motivo per cui la letteratura occidentale l’ha essenzialmente lasciata là dove Omero l’aveva collocata: all’ombra dell’eroe che aveva sposato.
Ovidio nelle sue Heroides ci mostra cosa sarebbe accaduto se fosse stata proprio Penelope a prendere la parola e ad avanzare un discorso nei confronti dell’amato lontano. Nel primo distico dell’epistola possiamo vedere come si rivolga al marito:
Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe;
nil mihi rescribas attamen; ipse veni.
Che in italiano possiamo tradurre come : “Queste cose, la tua Penelope, invia a te Ulisse, lento a tornare: non importa che tu risponda a me nulla, torna tu stesso”. Siamo nella prima epistola e questo è un inizio paradigmatico, che serve ad Ovidio per calare il lettore nell’atmosfera che caratterizza queste lettere di eroine : possiamo vedere in esso il mittente, il destinatario ed il gesto dell’inviare, che ci catapulta all’interno dell’ambito epistolare. In questo testo siamo di fronte ad una Penelope diversa da come ce la aspetteremmo, che da subito addita l’amante come “lentus”, aggettivo mutuato da Properzio e dall’elegia erotica, che sta ad indicare l’amante poco coinvolto e passionale. Ma la principale innovazione del testo si può individuare nel fatto che sia tematizzato lo scorrere del tempo, cosa che era del tutto estranea nell’interno dell’Odissea dove la dea Atena versava bellezza e giovinezza sui due protagonisti, che si ritrovano più belli di quando si erano lasciati. Il testo latino ci presenta invece una situazione diversa:
Certe ego, quae fueram te discedente puella,
Protinus ut venias, facta videbor anus.
In modo significativo Penelope conclude proprio dicendo “sicuramente io, che alla tua partenza ero una fanciulla, per quanto tu ritorni velocemente, sembrerò diventata vecchia”. È il termine Anus a chiudere il monologo ed in modo particolarmente significativo pone l’accento sul fatto che, per quanto ora Ulisse possa essere veloce a tornare, sono passati ormai vent’anni dal loro ultimo incontro.
La letteratura contemporanea invece si concentra su un punto ben preciso della storia di Penelope: il momento dell’effettivo ritorno del marito, che la donna ha tanto sognato ma che fa fatica a gestire nel momento della realizzazione. Esemplare in questo senso può essere un testo di Ghiannis Ritsos del 1968, La disperazione di Penelope, composto mentre il poeta si trovava in carcere per motivi politici.
Non era possibile che non lo riconoscesse alla luce del focolare; non c’erano
i panni logori del mendicante, il travestimento, no; segni certi:
la cicatrice sul ginocchio, la forza, la furbizia nell’occhio. Terrorizzata,
appoggiando la schiena al muro, cercava una giustificazione,
ancora un intervallo di tempo di breve durata, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
venti anni di attesa e di sogni, per quest’infelice,
per questo vecchio grondante sangue? Si lasciò cadere su una sedia
guardò lentamente i pretendenti morti sul pavimento, come se guardasse
i suoi propri desideri morti. E:”Bentornato”, gli disse,
sentendo estranea, lontana la sua voce. Sulle ginocchia il telaio suo
riempiva il soffitto di ombre a forma di grata; e quanti uccelli aveva tessuto
con cuciture rosse lucenti su fogliame verde, all’improvviso,
quella notte del ritorno, finirono in nera cenere
volando basso nel cielo piatto dell’estrema sofferenza.
Ghiannis Ritsos, Pietre, Sbarre, Ripetizioni, Einaudi, 1978, trad. italiana di N. Crocetta
A differenza della Penelope omerica, qui la donna riconosce immediatamente il marito, avvertendo però l’enorme distanza che questi vent’anni lontani hanno aperto. Si trova davanti un uomo vecchio, brutto, e sporco di sangue, e tutto ad un tratto i pretendenti morti sul pavimento prendono la forma dei desideri che non ha voluto cogliere, di un tempo che non avrà più indietro. Il suo telaio, strumento che nell’Odissea era stato simbolo per eccellenza della furbizia della donna ed anche della sua fedeltà, qui invece cade sul pavimento proiettando l’ombra di una grata, in cui la protagonista si trova imprigionata.
Una raffigurazione colma di una sensibilità psicologica notevole, ci mostra Penelope che deve fare i conti con l’inclemenza di un tempo che non può più riavere indietro, con il solco enorme che ha causato tra lei ed il marito tanto atteso.
Meno cupa è invece la raffigurazione che ci porta il testo di Margareth Atwood, Il canto di Penelope (2005), dove la donna riconosce il marito travestito da mendicante ma finge di credere alla finzione, per non commuoversi. Il romanzo dell’autrice canadese è una sorta di “autobiografia” della regina di Itaca, che però presenta molti tratti discordanti rispetto alla versione omerica ed in particolare accoglie la tradizione dotta che presenta una Penelope infedele. La situazione dunque che si viene a creare quando i due si incontrano è diversa rispetto a quelle che abbiamo analizzato in precedenza, perché entrambi i coniugi hanno qualcosa da farsi perdonare. Quando, dopo aver ucciso i Proci, Ulisse si rivela, Penelope versa una quantità di lacrime “adeguate per l’occasione”, mostrandoci come in realtà stia assolutamente recitando.
Successivamente, durante il loro confronto, lui le racconta di aver sempre sentito la sua mancanza, anche mentre si trovava tra le braccia di una dea, e lei ribatte dicendo di essergli sempre stata fedele, e così, sulla base dell’inganno reciproco, i due portano avanti il loro matrimonio come se nulla fosse accaduto. Infatti è proprio Penelope a dirci “Entrambi eravamo, per nostra stessa ammissione, mentitori esperti, fluenti e senza vergogna. È un miracolo se abbiamo prestato fede l’uno alle parole dell’altro. Ma lo abbiamo fatto, o almeno così ci siamo raccontati”.
In Itaca per sempre, di Luigi Malerba, si alternano capitoli narrati da Penelope con capitoli narrati da Ulisse. La donna nelle parti a lei dedicate dice di essere sempre stata fedele al marito, di aver trasformato il suo letto in una fortezza inespugnabile e considera un grave affronto il fatto che il marito al suo arrivo sull’isola non si sia rivelato subito a lei. Così, ferita, decide di comportarsi in modo da irritarlo: ella si mostra curata, affascinante , non consunta dal dolore, non chiede notizie del marito, e quando il mendicate le dice che lui effettivamente è ancora vivo, reagisce con indifferenza. Ulisse allora, sconcertato da tanta freddezza, si chiede “Dov’è la Penelope disperata che si è consumata nel pianto in notti insonni?”, la Penelope omerica, e si trova disorientato davanti a quella che definisce come una donna severa, piena di misteri. Il suo distacco continua anche nel momento in cui l’uomo, dopo aver ucciso i Proci, vorrebbe essere riconosciuto dalla moglie che però continua sulla sua strada, lasciandolo prigioniero della sua finzione, denunciando il fatto che suo marito non l’avrebbe mai ingannata così.
La conclusione va verso un riavvicinamento dei due, che vent’anni di separazione avevano ormai reso estranei, ma è un avvicinarsi effimero, messo in atto più che altro per stanchezza. Significativo è il fatto che Penelope dopo aver abbracciato Ulisse dica solo “ora sono molto stanca e desidero soltanto un po’ di pace”.
Questi sono solo alcuni esempi delle raffigurazioni che vedono protagonista Penelope in età moderna, ma credo siano azzeccati per farci vedere l’effettiva distanza che le separa dal personaggio omerico. Un personaggio che per quanto dotato di furbizia, ingegno e fedeltà rimane comunque statico, ancorato all’attesa di un marito che non sa nemmeno se sia ancora vivo o morto. Ai giorni nostri invece, possiamo notare come tutta la vicenda sia catapultata in una dimensione in cui è centrale lo scorrere del tempo e la sua inclemenza, una dimensione in cui non c’è nessuna Atena a ristabilire l’ordine perduto.
Il tempo consumato nell’attesa, si ritrova perso irrimediabilmente.