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Montale e quel "Milione di scale"

di Giulia Pagani16/01/23
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Tempo di lettura 5 minuti

Satura, che costituisce la quarta raccolta di Eugenio Montale dopo Ossi di Seppia, Le Occasioni e La Bufera ed Altro, venne pubblicata nel 1971. Essa ha un carattere del tutto particolare all’interno della produzione del poeta: il linguaggio cambia, facendosi più umile con un abbassamento dello stile. Si può scorgere in questi versi un’ombra di normalità vissuta attraverso gli oggetti umili e le presenze del mondo quotidiano. In particolare le prime due sezioni di questa raccolta, Xenia I e Xenia II, sono dedicate alla moglie Drusilla Tanzi, morta da poco. Montale, che non era certo celebre per la sua fedeltà, nel suo lungo itinerario poetico decantò  numerose donne, ma queste sono tutte legate ad occasioni contingenti, come la celebre relazione che egli intraprese con Irma Brandeis, la Clizia dei suoi componimenti (che comunque occupò un posto speciale nel cuore dell’uomo). Drusilla invece rimase sempre presenza costante, nonostante le avventure del poeta ed una storia d’amore non facile. I due alla fine si sposarono nel 1962: la donna morì solo un anno dopo a causa delle complicazioni dovute ad una caduta. Ed è proprio in questo periodo che Montale iniziò la composizione dei suoi Xenia: questa parola che indicava nella tradizione greca i doni che venivano riservati agli ospiti, assume qui un altro valore, andando a raffigurare doni votivi riservati alla moglie morta, attraverso un dialogo essenziale ed enigmatico. In queste pagine il loro rapporto si sublima, diventando arte, e raccontandoci in che modo Montale riesca a sopravvivere all’assenza della moglie. Ci racconta quel “milione di scale” che i due avrebbero sceso insieme, ed il vuoto inesorabile in cui l’autore è sprofondato, quel “vuoto ad ogni gradino” che egli percepisce straziante.

 

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

 

Drusilla, nonostante soffrisse di una forte miopia che le aveva fatto guadagnare il soprannome di Mosca, è colei che aiutava il marito a scorgere il senso profondo delle cose: erano sue quelle “vere pupille” funzionanti all’interno della loro relazione. Si tratta di una poesia meravigliosa a mio parere, che in poche righe va a delineare il sentimento di vuoto che l’autore prova attraverso versi che trovo di una bellezza disarmante. 

 

Avevamo studiato per l'aldilà 

un fischio, un segno di riconoscimento. 

Mi provo a modularlo, nella speranza 

che tutti siamo già morti, senza saperlo.

 

Questo è il quarto componimento della prima parte della raccolta, dedicato alla presenza della moglie che come un’ospite torna a visitarlo. Ella rievoca uno scherzo concordato tra i due, che avevano immaginato di poter comunicare anche dopo la morte per mezzo di qualche segnale a loro noto, “un fischio, un segno di riconoscimento”. Nel momento della scomparsa della moglie, il poeta prova effettivamente a modularlo, nella speranza più profonda, espressa con ironia, che “tutti siamo già morti senza saperlo”. Il rapporto di complicità che si era costruito tra l’autore e la moglie nel corso degli anni si può rintracciare anche in un’altra lirica:

 

Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.

Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:

di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

 

La moglie viene qui rappresentata con un’affettuosa ironia attraverso il suo paragone con una serie di animali: ella sarebbe un insetto miope, smarrito nel “blablabla” dell’alta società, superficiale e frivolo, fatto di chiacchiere senza senso abilmente smascherate dall’infallibile “senso di pipistrello" della donna. Ella riusciva a vedere aldilà delle apparenze ingannevoli ed a comprendere ciò che è davvero essenziale, trasmettendolo al marito. Gli aveva insegnato il coraggio, quello di distinguere il vero nell’ipocrisia confusa della sua epoca. 

 

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno;
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una cosa sola.

 

Drusilla, pur non essendo più forma, rimane sempre presente nella vita del poeta come essenza: è l’unica che, con la sua capacità di vedere oltre alle apparenze, coglie la differenza tra i due estremi, moto-stasi, vuoto-pieno, il sereno che è la più diffusa delle nubi. Non basta al poeta la consapevolezza di essere una cosa sola con la sua Mosca, benchè divisi, ed il sentimento di abbandono che egli prova emerge con forza negli ultimi due versi. 

Nella seconda sezione di SaturaXenia II, si più osservare il senso di ironia e distacco che Montale prova nei confronti della morte. 

 

La morte non ti riguardava.
Anche i tuoi cani erano morti, anche
il medico dei pazzi detto lo zio demente,
anche tua madre e la sua ‘specialità’
di riso e rane, trionfo meneghino;
e anche tuo padre che da una minieffigie
mi sorveglia dal muro sera e mattina.
Malgrado ciò la morte non ti riguardava.

Ai funerali dovevo andare io,
nascosto in un tassì restandone lontano
per evitare lacrime e fastidi. E neppure
t’importava la vita e le sue fiere
di vanità e ingordigie e tanto meno le
cancrene universali che trasformano
gli uomini in lupi.

Un tabula rasa; se non fosse
che un punto c’era, per me incomprensibile,
e questo punto ti riguardava.

 

La lirica di Montale si fa qui lamento pacato, consapevolezza dell’ineluttabilità della fine della vita umana. Una consapevolezza che pervade ogni verso dell’autore, sublimando il ricordo della donna amata che permane in ogni cosa nonostante la separazione, nonostante il fatto che lei non sia più materia. 

Montale ci mostra come un amore può sopravvivere al tempo ed all’assenza, come il ricordo di quel “milione di scale” percorso insieme possa sublimarsi in liriche di rara bellezza.  

È la testimonianza della vita , dell’amore, che, superando la morte,  si fa letteratura. 

 

Credits: Pixabay

Scritto da

Giulia Pagani

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