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E se smettessimo di lavorare come abbiamo sempre fatto?

di Michela Belcore30/01/23
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Tempo di lettura 6 minuti
Nel futuro il mondo del lavoro sarà sostenibile

Come le nuove generazioni percepiscono il lavoro e cercano di insegnarlo alle altre

La bustina di oggi, lunedì 30 gennaio, prova a costruire un discorso ispirato da alcuni articoli e letture sul tema del lavoro che ho approfondito durante questo mese.

Una questione di cambiamento

Il mondo globalizzato deve fare i conti con le molteplici realtà lavorative di oggi, radicalmente diverse anche da come si presentavano soltanto vent'anni fa.

Alzi la mano chi non ha mai sentito i propri genitori preoccuparsi per i figli, per i loro studi, per il loro futuro, percepiti come incerti e fortemente a rischio. Le domande e i dubbi generano pressioni e insicurezze che rischiano di provocare insofferenza e disorientamento nelle nuove generazioni.

Erano altri tempi

Il disorientamento è frutto della mancata previsione di un cambiamento strutturale che sarebbe avvenuto in un così breve lasso di tempo.

Le generazioni dei nonni, e un po’ meno quelle dei nostri genitori, hanno vissuto il lavoro con sacrificio e devozione, vincolato ad un unico percorso, sicuro (una volta che lo avevi!) e tracciato perché spesso si ereditava insegnando un mestiere ai figli e/o lasciando loro persino il posto in fabbrica. Riprodurre mestieri e professioni come fossero modelli, garantiva una certa stabilità ai nuclei familiari.

Per noi non è più così.

Oggi, se va bene, si eredita un immobile, diversamente da altre regioni del mondo, qui molte persone e famiglie sotto la soglia di povertà possiedono una casa di proprietà. Questo fa aumentare l’ISEE, motivo per cui fasce importanti di popolazione vengono escluse da alcune agevolazioni.

In tutto questo a farne le spese sono un’alta percentuale di giovani che richiedono mutui (con meno garanzie e tutele perché spesso senza lavoro, figuriamoci se stabile) o “scelgono” di coabitare, rimanendo anche solo parzialmente a carico delle famiglie, nel tentativo di arrivare a potersi permettere una casa che sia propria.

Dall’anno scorso, sembrerebbe che lo Stato, stia provvedendo ad attuare nuove forme di agevolazioni (garanzie e tassi) per sostenere forme contrattuali di lavoro atipiche nell’accensione dei mutui.

All’estero, invece, si affitta molto di più, ci si sposta molto di più (casi in cui la casa diventa un fardello), inoltre vengono sperimentate e valorizzate altre forme di coabitazione, di sharing e di leasing per auto e perfino abiti (soluzioni di cui avremo bisogno per impattare meno: ma su questo rifletterò in un prossimo contributo).

Come sembrano andare le cose

La strutturazione del nuovo mercato del lavoro ci suggerisce che:

«I datori di lavoro ora ricercano proprio i tratti umani che il capitalismo industriale ha provato con tanta tenacia a estirpare. Creatività, “capacità relazionali”, e attitudine alla cura sono ciò che ci rende esposti allo sfruttamento proprio in quelle professioni che dovremmo amare: in teoria la possibilità di esercitare queste doti dovrebbe rendere il lavoro meno deprimente, in realtà ha fatto sì che il lavoro si insinuasse sempre più in profondità in ogni aspetto delle nostre vite.» (tratto da “Il lavoro non ti ama” di Sarah Jaffe; edito Minimum fax).

Tra le novità degne di nota trovo sia interessante la fioritura di tanti nuovi lavori: opportunità che necessitano di figure professionali strutturate e formate diversamente. Al fianco di queste novità, però vi sono ancora lavori, con condizioni lavorative sfavorevoli, disseminati sul territorio in vari settori, che non vengono adeguatamente retribuiti, con promozioni posticipate e/o veri e propri demansionamenti. 

Lo stato sociale dovrebbe potersi fare carico del sostegno di ogni cittadino (e non solo!) che aspira a lavorare, garantendo uguaglianza sostanziale anche sotto forma di opportunità.

In Italia, un esempio tristemente noto sono gli stage e i tirocini non retribuiti che come unico vantaggio hanno il profitto di chi li propone e come ci insegna l'intersezionalità  si segmentano su soggetti già di per sé fragili, come dimostra una ricerca dell’European Youth Forum ha scoperto che un tirocinio non pagato costa in media mille euro a chi lo svolge. Secondo i ricercatori, questo dato è destinato a peggiorare nel prossimo anno a causa dell’inflazione (fonte: Factanza).

Il tasso di disoccupazione in Italia è ufficialmente circa del 10% e basta esaminare i numeri dando uno sguardo alla composizione demografica per immaginare che si debbano cercare soluzioni alternative per evitare il collasso del sistema pensionistico (per Torcha sembrerebbe che ci siano attualmente più settantenni che minorenni) e per capire che anche se funzionassero le politiche attive del lavoro, il mercato così com’è, non riuscirebbe ad assorbire tutta la domanda del lavoro di categorie più fragili che non tutti sarebbero disposti ad assumere.

La definizione di occupabili, come potenzialmente occupati, è tornata alla ribalta con il reddito di cittadinanza: le stime della Caritas ci dicono che il 70% dei beneficiari è stato dichiarato inabile al lavoro.

Risposte adattive: sopravvivere al disagio della modernità e rischio patologico

Gestione del fallimento e aspirazione al successo: il dilemma del nostro tempo

Un mondo  devastato da “crisi”, guerre e disastri climatici diventa tollerabile se si accetta di lavorare per dimenticare, non informandoci per non soffrire e ricercando intrattenimento che attraverso i social sembra permeare qualsiasi ambito e che formatta i nostri livelli di attenzioni ai 15 secondi delle storie di Instagram o ai 6,7 secondi che servono per capire se un post merita un’interazione. 

La condizione di “aspiranti lavoratori incide al punto che “secondo l’Oms, un europeo su quattro soffre di ansia o depressione: non sorprende, quindi, che negli ultimi decenni anche la diffusione dei farmaci dedicati al trattamento di questi disturbi abbia conosciuto una vera e propria esplosione. [...] aumentano le persone che assumono psicofarmaci anche in assenza di una diagnosi medica. Un fenomeno che negli ultimi tempi, in Italia, coinvolge sempre più adolescenti. [...] Che si tratti di stimolanti per raggiungere il successo o di pillole per alleviare l’ansia di non riuscirci, ricorrere agli psicofarmaci si sta lentamente trasformando in una strategia di sopravvivenza. Si tratta delle conseguenze di una cultura che, accecata dall’individualismo e dal desiderio di prevaricare sugli altri, vede nel fallimento il peggiore dei destini possibili. Se il valore dell’essere umano dipende esclusivamente dalla qualità delle sue prestazioni, assumere psicofarmaci per stimolare attività e attenzione, offuscando l’ansia, è quindi funzionale a garantirsi la vittoria e preservare così la propria autostima. L’insuccesso, al contrario, è un’eventualità che nell’universo capitalista trova spazio solo nella vita dei perdenti – e nessuno vorrebbe appartenere a questa categoria.” (rimando all’interessante articolo di The Vision).

Un’altra piaga “moderna” sono i suicidi tra studenti (per l’ISTAT ogni anno sono 200 ragazzi sotto i 24 anni) che sempre più spesso dovrebbero fornire un campanello d'allarme per un disagio che troppe volte rischia di venire frainteso o addirittura ignorato da famiglie e istituzioni e da chi dovrebbe fare qualcosa. Credo che molto dipenda dalla pessima comunicazione che connota i media quando parlano di università, precarietà e femminicidi: contribuiscono ad accentuare il disagio nei fruitori delle notizie. Non credo che il suicidio sia spiegabile con un’unica causa ma, come fenomeno complesso, rischia di venir accresciuto anche da competizione e desiderabilità sociale, innescato dalla spettacolarizzazione di “storie eccezionali” di merito e sacrificio che non fanno altro che accrescere la tossicità del successo e che si distaccano dalla realtà dei fatti contribuendo alla costruzione di una percezione distorta del mondo dell’istruzione e del lavoro. È necessario decostruire la nostra concezione di fallimento smettendo di associarlo al senso di colpa al fine di concepire la fragilità come parte integrante dell’esperienza individuale. 

Altre risposte adattive, non universalmente praticabili: questione di privilegi

Una delle risposte che chi non è ancora entrato nel mondo del lavoro è quella di ritardare l’ingresso, magari continuando a formarsi, magari specializzarsi creandosi professionalità personalizzate che rallentano le vite di studentesse e studenti che hanno solo paura di non riuscire a trovare un lavoro che piaccia e soddisfi.

Il tutto per provare a rendersi "appetibili" sul mercato del lavoro, accumulare esperienze che facciano curriculum, farsi conoscere, ed apprezzare in maniera preventiva, aspettare che i colleghi più anziani vadano in pensione. Una delle parole che ricorre negli annunci è il concetto controverso di flessibilità che Luciano Gallino in alcuni suoi testi approfondisce come controverso, perché sintomo del clima di sofferenza che il mondo del lavoro sta soffrendo anche adesso.

Una volta dentro, i lavoratori e i neo lavoratori per evitare il burnout, cercano strategie di sopravvivenza ponendo confini chiari in cui riporre vita privata e lavoro, costruirsi ritmi sostenibili nel rispetto delle responsabilità, senza ricorrere al Quit Quitting. E’ necessario uscire dalla logica della crescita, della produzione e del consumo sfrenati perché ci stanno facendo ammalare: una risposta positiva sono state le “dimissioni volontarie” post Covid, benefiche per la salute mentale dei lavoratori.

Soluzioni ottimiste da cui trarre dei modelli: buoni auspici

In alcuni Stati europei, quali il Portogallo, la settimana lavorativa di 4 gg., potrebbe essere una rivoluzione per il mondo del lavoro.

Secondo l’esperimento di portato avanti dall’associazione 4 Day Week Global insieme ai ricercatori del Boston College, dell’University College di Dublino e dell’Università di Cambridge, la settimana lavorativa di quattro giorni può alimentare la cultura della parità di genere offrendo ai lavoratori e alle lavoratrici la possibilità di migliorare l'equilibrio casa-lavoro, avendo effetti positivi anche su economia e clima.

E’ dunque auspicabile una svolta sostenibile in termini di risorse umane e ambientali, capaci di coniugare il benessere tra tempo libero e lavoro. Immagino e spero che in un futuro non troppo lontano, non sia necessario lavorare tante ore per avere salari dignitosi per soddisfare livelli di benessere (che devono comunque essere ridimensionati) anche a tutela della salute collettiva.  

- Prima di salutarci vi consiglio qualche contributo interessante per approfondire che non sono riuscita ad inserire qui:

Scritto da

Michela Belcore

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