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Tutti questi semi di curcuma

di Mario Roma24/04/24
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Tempo di lettura 7 minuti

Il mondo non ci appartiene, ne siamo testimoni, abitatori, possiamo prendercene cura, il mondo ci sfama, ci nutre, ma di certo non ne siamo padroni, non è di nostra proprietà. Il percorso irreversibile che ci porta allo sfruttamento serrato ed esasperato nei confronti della natura è destinato a concludersi nel buio, nelle difficoltà, è inevitabilmente indirizzato ad incanalarsi in una strada senza uscita, priva di vie di fuga. Forse allora, l’unico modo, sebbene romantico e a tratti utopico, per invertire la direzione è quello di riappropriarsi del proprio tempo, di tornare ad ascoltare il ritmo terrestre, lo svolgimento regolare e dinamico dei cicli naturali, di prendersi cura della terra, delle piante, degli altri esseri viventi, del cibo. L’unico modo è tornare a comprendere l’importanza del pane, che non è solo un mezzo, che non ci permette unicamente di sfamarci, ma che è pilastro del nostro vivere quotidiano, emblema del Mediterraneo che ci ospita, che più che spazio fisico dai confini definiti e limitati, è luogo della mente, idea di comunione dei popoli, delle genti, degli uomini. Mediterraneo, che al pari di pane, è una parola scrigno, non rivelata, ma rivelatrice, che si apre a significati e considerazioni multipli, intimi, è una parola che oltrepassa il visibile e approda nell'immaginazione e che per certi versi ha una valenza, in tal senso metafisica. Mediterraneo, pane sono dunque termini che scavano in profondità attraverso le radici del tempo e dello spazio.

Il pane è prodotto della natura e della cultura. È stato condizione di pace e causa di guerra, pegno di speranza e motivo di disperazione. Le religioni lo benedicevano. Il popolino giurava su di esso. Sono disgraziati i paesi dove non c’è abbastanza pane per tutti. Ma, per contro, non sono felici neppure quelli dove c’è solo pane. (P. MATVEJEVIĆ, Pane nostro, Garzanti, 2010, p.17)

Il pane è dunque in primis figura retorica, è sineddoche che indica la capacità o meno di un popolo di provvedere al sostentamento, di avere qualcosa da mangiare. È certamente un fatto economico, ma non solo; il pane diventa simbolo, certezza, conferma, il pane si fa oppositore della disgrazia. E viene Benedetto. Ritroviamo nel pane una sacralità che si configura a partire dal legame con il corpo. È inserito nelle preghiere, nel rito, nella liturgia, è un’idea che sconfina nel sogno, nella Fede; al pane ci si affida e ci si volge con rispetto. Non esiste popolo che nel corso dei secoli non abbia guardato al pane con benevolenza. E se oggi possiamo permetterci di farne a meno, in questo spicchio irreale di Occidente, è per via di una distribuzione assurda della ricchezza, che porta alcuni a decidere la quantità esatta di semi di curcuma da posizionare sulla superficie e altri, a migliaia di chilometri di distanza, a desiderarne un pezzo, anche raffermo, anche indurito.

Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. “Ecco se c’è il pane!” gridarono cento voci insieme. “Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame”, dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: “lascia vedere”. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. “Giù quella gerla”, si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. “Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi”, dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato.
Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. (A. MANZONI, I promessi sposi, Milano, 1827)

Il pane poi segna la strada, ci mostra un tragitto che unisce città differenti tra loro, ma al tempo stesso molto legate, tenute insieme da un sentire comune, da profumi e rumori mediterranei. C’è una linea immaginaria e al contempo paradossalmente tangibile, che collega città lontane, che da Trieste porta a Zagabria e da Matera volge a Sarajevo, che passa per Atene e Istanbul. Luoghi diversi, un orizzonte comune, una breadline, come la definisce Elena Bellantoni, un unico Mediterraneo. È ancora una volta il pane che segna la strada, che si concede all’uomo, ai popoli, che pregano divinità differenti e benedicono un unico pane, talvolta appena sfornato, altre volte indurito dal tempo, pane secco, stantio dalle “sette croste”. Sono numerose le vie del pane, nel corso della storia le direttrici sono state differenti, alcune legate ad aspetti più economici, altre di matrice culturale. In tutte però, si rendeva evidente il binomio tra il viaggiatore e chi restava, tra il viaggio e la restanza, due forme diverse di cammino.

Molte sono le vie del pane, vecchie e nuove, remote e vicine. Non c'è posto per tutto, né nella storia né nella leggenda. Neanche in un racconto che talvolta se ne ispira, ne trae la trama e se ne allontana. Quelli che si mettono in viaggio e quelli che tornano dal viaggio di rado mangiano lo stesso pane. (Op. cit. P. MATVEJEVIČ, p.82)

Il pane è, nell’ottica del viaggio, il simbolo del ritorno; i profumi della propria terra sono la prima cosa che notiamo, nel momento in cui approdiamo nuovamente nei posti che ci stanno a cuore. Ogni luogo ha il proprio pane, ha i propri odori, fragranze diverse che appartengono a luoghi diversi. Il pane è nóstos ed è algós, per tutti coloro che sono costretti a spostarsi per cercare fortuna altrove. È saudade, è nostalgia di un luogo che prima di essere luogo fisico, è un luogo della mente. Il pane in molti casi è l’emblema del viaggio, basti pensare alla frisella, che nasce con il buco al centro per essere legata con una corda e portata dai pescatori in mare, che prima di mangiarla la bagnavano con l’acqua salata. Il pane carasau poi, così sottile e croccante, che per l’assenza di mollica è in grado di conservarsi fino a sei mesi, era il pane dei pastori che per lungo tempo rimanevano fuori casa. C’è un legame diretto tra il pane e il viaggio; il pane di coloro che partono, che sono costretti a viaggiare o che scelgono di spostarsi e il pane di chi rientra, di chi torna a casa, di chi sa che ad accoglierlo, ci sarà nuovamente quel pane che dà la vita, quel pane Benedetto, il pane di casa.

Se Kant aveva avvertito che non c’è ritorno, Rimbaud osservava: “Non si parte”. Il mondo è diventato troppo stretto (come il paese stretto di una volta) per poter pensare di raggiungere davvero un’alterità a cui ci avevano abituato i viaggiatori e gli antropologi del passato, che peraltro hanno contribuito a distruggere. L’urgent anthropology e l’idea che le culture possano finire, ancora oggi, sono causa di spedizioni etnografiche. Portando la riflessione all’esterna conseguenza, dovremmo dire: “Non si resta”, perchè in un mondo in perenne movimento, anche chi resta è in viaggio. E, forse, partire, tornare, restare sono diventate - o sono sempre state - modalità diverse del viaggiare. Se non ti senti prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo, vuol dire che possiedi la libertà del cammino. L’avventura del restare - la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della restanza - non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme. Restare, allora, non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni della vita. (V. TETI, Pietre di pane, un’antropologia del restare, Quodlibet Studio, p. 22)

Il pane è dunque anche casa, luogo sicuro, appiglio fidato, è il focolare domestico attorno al quale ci si ritrova. Quando il mio bisnonno ad inizio XX secolo partì per L’America portò con sé un paio di vestiti e una pagnotta. Non è un caso, è metafora del quotidiano, è il ricordo di casa che parte insieme al viaggiatore, è il legame inscindibile con la propria terra.

Uscivamo di casa di corsa, con in mano le fette di pane bianco croccante, appena sfornato. Correvamo nelle strade con le fette inumidite ricoperte di zucchero o con pane olive, pane cacio, pane e soppressata. La crosta, la scorza, il ritaglio che mia madre mi porgeva, conoscendo le mie preferenze, era una favola sulla vita. (Op. cit. V. TETI, p 45)

Oggi una persona su dieci nel mondo però è denutrita e un terzo della popolazione non può permettersi una dieta salutare. Ecco che allora anche il pane diventa fonte di scontro, meta ambita, non solo bene di condivisione, ma di lusso, da avere, possedere.
La crescita spropositata dei prezzi si affianca alla redistribuzione assurda delle ricchezze, in un vortice che porta la povertà ad aumentare. Dacci oggi il nostro pane quotidiano diventa la frase più contemporanea che possa esserci, diventa l’emblema dell’impotenza dell’uomo nei confronti della superpotenza di altri. L’impossibilità di provvedere a sfamarsi è una costante per milioni di persone. “Secondo una stima della Fai, nel 2020 per 189 milioni di indiani (su 1,3 miliardi) l’insufficienza di cibo era acuta. Secondo il Global hunger index, l’anno scorso l’India era al 94° di 107 posti nella classifica dei paesi colpiti dalla fame. Una rilevazione nazionale su famiglia e salute nel 2015-2016 aveva riscontrato che il 59 per cento dei bambini di meno di cinque anni e il 53 per cento delle donne erano anemici. Più del 38 per cento dei bambini era rachitico e quasi il 20 per cento presentava i segni di malnutrizione acuta.” (Internazionale, 1428, 24 settembre 2021, p.50)

Non di solo pane vivrà l’uomo però. The worker must have bread, but she must have roses, too. (R. Schneiderman, slogan Bread and roses, 1912).

Con il pane che nuovamente è figura retorica, è metafora, è al centro di un discorso ben più articolato. Un discorso economico e politico, sociale ed antropologico, che ci porta ad interrogarci e a chiederci qual è il valore reale del nostro vivere condiviso, del nostro essere abitanti della Terra, ospiti di un mondo così meraviglioso.

Scritto da

Mario Roma

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